Ignorati dalle istituzioni. Ma sostenuti dalle loro comunità. Parlano i superstiti del massacro del museo tunisino: «Così continuiamo a vivere nella paura»

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Era il 18 marzo 2015 quando il terrorismo ha fatto irruzione nelle loro vite, sconvolgendole. E ancora adesso - più dolorosamente poi in questi giorni con Natale che si avvicina - la ferita di questa guerra sanguina. Sì: guerra. La chiamano così i testimoni, non hanno dubbi; non si sentono turisti colpiti per caso ma vittime di un conflitto globale.

“Loro” sono i “sopravvissuti del Bardo”, i reduci di quel mercoledì di marzo in cui un commando di tre ventenni armati ha deciso di uccidere 22 persone al museo archeologico di Tunisi, fra loro quattro turisti italiani. Nella rivendicazione dell’attentato li hanno definiti “crociati”. Erano solo signori in vacanza. Uomini e donne nelle cui esistenze l’ipotesi di una morte per mitra era lontana quanto lo schianto di un meteorite in cortile.

Ma la brutalità covata in Siria è arrivata dentro le loro famiglie. E vi ha lasciato solchi profondi: ricordi che non fanno addormentare, domande irrisolte sugli assassini, offese per un rispetto che manca, calore per la solidarietà ma soprattutto, sopra ogni cosa, paura: paura a prendere la macchina, a fare la spesa, a sperare nel futuro. Ecco quello che raccontano le vittime del Bardo, una volta superata la retorica delle prime attenzioni. Mentre ripetono: «Sappiamo quello che stanno provando i ragazzi e i parenti di chi è morto a Parigi. L’abbiamo vissuto noi nove mesi fa».

QUEL GIORNO DI FUOCO
«Un incubo, un inferno. È indescrivibile quello che si prova. È successo tutto improvvisamente, in pochi secondi. Io sono stata centrata alla spalla e al torace da due proiettili. È stato come se un lanciafiamme mi perforasse il petto. Ma non sono svenuta. Sono rimasta per più di un'ora senza potermi muovere. Cosciente, con Francesco in braccio. Avevo sotto gli occhi il buco della pallottola alla schiena che l'ha ucciso. Sanguinava: quando mi hanno tolta dal pullman ero una mummia di sangue. Ricordo poi la paura quando il bus è stato accerchiato dai militari, tanti uomini in divisa. Non capivo cosa stesse succedendo, mi dicevo: è finita».
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Invece erano le guardie, che riprendevano il controllo della zona. Ma lei non poteva più sentirsi sicura. Non può. Sonia Reddi, impiegata novarese di 55 anni, compagna di Francesco Caldara, parla con rabbia e stanchezza. Sul pulmino organizzato da Costa Crociere per visitare il museo erano insieme, seduti vicini. Lui è morto mentre scendeva dalla porta anteriore. Lei porterà per sempre le ferite dell'attentato. Non solo per le cicatrici al torace e alla spalla o per le schegge dei proiettili che le restano nel collo o sotto alla pelle: «Non ho gli incubi di notte», dice, pesando le sillabe: «Se riesco ad addormentarmi, allora dormo. Il guaio è addormentarmi, perché ho quelle scene davanti agli occhi. Sempre».

TUTTO VERO, MA IRREALE
Silvio Senzani lavora come operatore sanitario all’ospedale di Desio. Era di riposo il 18 marzo, quando è suonato il cellulare. «Silvio, Silvio, è successa una cosa brutta. Siamo stati attaccati. Capisci? Attaccati. E adesso come facciamo senza la mamma?». Così ricorda le frasi tra le lacrime del padre.

La madre, Giuseppina Biella, era appena morta accasciata sui gradini della scaletta centrale del piccolo bus. Una raffica di mitra l’aveva colpita alla testa all’apertura delle porte. «Mio padre era seduto davanti. La chiamava, la chiamava. Finché, appena ha potuto, è tornato indietro. E l’ha vista. L’ha abbracciata e le ha preso la borsa». Lo stesso giorno Silvio è volato a Tunisi, mentre su Facebook amici e conoscenti preoccupati gli scrivevano: “vedrai, magari è solo dispersa”, “ti siamo vicini”.

Lui già sapeva. «Il giorno dopo siamo andati all’obitorio, in ospedale. Ricordo le impalcature a vista, il caldo, un odore fortissimo di formaldeide, nauseabondo. La mamma era su un letto in alluminio, sopra un sacco. Era tutto assurdo, inspiegabile. Ti senti come in un film. In una serie tv. Ma in questo caso ero io il protagonista».

L’irrealtà è un sentimento in cui abitano tutti, da quel giorno, lo ribadiscono a ogni domanda: li lascia sospesi. «È fuori dalla nostra immaginazione», ripete Silvio, cercando di dare un nome all’incapacità di fare i conti con quello che è successo, a convincersi sia accaduto davvero, a loro. «Non ce la faccio proprio a metabolizzare la sua morte», prova a spiegare: «Non abbiamo ancora svuotato gli armadi. Andiamo avanti. Ma non lo so quello che provo. Pensi sempre che succeda agli altri; poi accade a te. E allora capisci davvero che questa guerra, perché è una guerra, non ha fronti né trincee. Possono colpire ovunque».
Giuseppina Biella in una foto data a "l'Espresso" dal figlio

CONVIVERE CON LA PAURA
Un’altra figlia testimonia la stessa cappa d’irrealtà che resta ai sopravvissuti: «So che è successo, ma non ci credo ancora. Al sabato mattina, quando di solito papà passava da casa, ogni volta che qualcuno suona alla porta ho un sussulto al cuore», racconta Greta, 36 anni, la figlia di Francesco Caldara, una giovane donna che ha imparato a convivere con una nuova presenza: il terrore.

«Non avevo mai sentito la paura così presente nella mia vita», spiega: «Non riesco a vedere le immagini dei morti in tv. La sera degli attentati di Parigi ero a casa di un’amica. Il mio compagno mi ha mandato un sms. Sapeva che stavo vivendo con angoscia gli attentanti, pensando ai familiari delle persone coinvolte».

Un dolore reso più rigido e sordo dal fatto che la regia dell’attacco di Tunisi rimane ancora incerta: due terroristi sono stati uccisi sul posto, diversi sono stati arrestati. Ma otto dei 23 fermati, fra cui un uomo presentato all’inizio come il capo della cellula del Bardo, sono stati poi liberati. Per i familiari quel massacro è rimasto impunito.
Francesco Caldara in una foto data dalla figlia a "l'Espresso"

«Non poter dare un volto agli assassini di mio padre è terribile», conferma la figlia. Mentre le vittime raccontano la quotidianità stravolta dalla strage: «Da quel giorno la mia vita è cambiata completamente: ho timore ad andare al supermercato. Mi dà angoscia anche solo vedere qualcuno che chiede l’elemosina... è più forte di me. Continuo a fare le cose normali, perché devo, perché altrimenti uno si chiude in casa e basta. Ma ci si deve violentare, per sopravvivere», dice Sonia. Altri provano a ricostruirsi una quotidianità di amici, lavoro, pranzi, sport. Una terza famiglia infine preferisce non rispondere: sono in cura da uno psicologo, con l’avvicinarsi del Natale ogni ricordo pesa troppo.

LO STATO DOV’È?
Archiviati solidarietà e cronaca davanti alle telecamere dei primi giorni, ora in questo tentativo di rialzarsi dal terrore Roma sembra lontanissima. E le autorità assenti. «A giugno ho ricevuto un invito via mail dall’ambasciata italiana a Tunisi», racconta Sonia Reddi: «Mi chiedevano se volevo partecipare a un festival organizzato dai ristoratori nel suk della città, per il quale erano stati chiamati due feriti del Bardo per ogni nazione. Ho risposto che lo trovavo di cattivo gusto. Mandarmi la convocazione per posta elettronica? Chiedendomi di tornare? Dopo questo scambio non si sono più fatti sentire. È una mancanza di rispetto terribile».
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Anche sull’ufficialità dei funerali sono rimasti grovigli d’incomprensione. In Rete molti (giornalisti compresi) hanno parlato di “funerali di Stato” per Valeria Solesin, lamentandone l’assenza per gli altri falcidiati dal terrorismo. Ma è falso: nessuno ha avuto esequie di Stato, spiegano dalla presidenza del Consiglio, un tributo riservato negli ultimi anni solo a Placido Rizzotto e alle vittime del Tribunale di Milano.

Il figlio di Giuseppina Biella racconta però che nel loro caso il prefetto di Monza aveva presentato la possibilità di dare alla mamma delle esequie solenni; erano stati lui e suo padre a preferire una cerimonia semplice. Per Torino e Novara invece la prefettura piemontese taglia corto: «Noi non c’entriamo nulla con la questione delle esequie», dicono dal gabinetto: «Non spetta a noi». Lasciando che i sopravvissuti si sentano dimenticati. Dove non arriva l’abbraccio dello Stato, però, si può riscoprire la forza di una comunità.

LA COMUNITÀ VICINA
La palazzina a tre piani dove abitava Francesco Caldara sta proprio davanti ai binari del treno, sulla linea Torino-Milano, a pochi metri dalla stazione di Novara. Nell’aiuola di fronte al balcone, i cavi che tengono in piedi gli alberi più giovani sono ancora quelli che aveva teso lui.

Il giardinaggio e i motori erano le due passioni del pensionato novarese, una vita trascorsa come autista e controllore sui mezzi pubblici della cittadina piemontese. A pochi passi da casa c’è un fazzoletto di verde che sta per essere intitolato proprio a lui.

Alla sua memoria, come hanno voluto gli stessi abitanti del tranquillo quartiere residenziale di Santa Rita e i membri dell’associazione culturale “Nuares”. In queste strade placide, anche solo di vista, Francesco lo conoscevano tutti: «Un uomo d’altri tempi, riservato ma molto presente nella comunità», dicono. Per i vicini, che ogni sabato mattina si incontrano all’edicola, questo piccolo polmone di erba è un luogo vivo, di ritrovo.

Per la figlia, l’idea del parco e la solidarietà della gente «è un sollievo, il calore delle persone mi dà forza», dice. È lo stesso racconto che fa Silvio del paese di Meda dove il padre e la madre hanno vissuto in coppia per 49 anni, sempre insieme: «Non ho sentito una sola parola stonata», racconta: «Ci sono stati vicini in tanti. Anche inaspettati. Hanno promosso una fiaccolata in parrocchia, all’ospedale hanno detto una messa, un assessore regionale in Lombardia ci ha invitati per l’Expo. È vero, l’attenzione è stata alta soprattutto i primi giorni. Poi sempre meno. Ma io e mio papà pensiamo sia meglio così. È bene che si depositino un po’ i sentimenti dopo quel polverone».