Le guerre ?tra poveri. ?Le gang di ogni colore. La tolleranza zero. I senza casa. E gli studenti che non vengono più. L’ex città gioiello vive il suo momento più difficile

Accade tutto in un paio di minuti, zona Stazione, le sei di sera. In tre si sottraggono al controllo di Carabinieri in borghese e Polizia locale in divisa e cane antidroga. Urla, tafferuglio, un corpulento nigeriano di 28 anni stende a pugni in pancia due militi, viene bloccato a terra, verrà fermato, gli altri scappano. Il fotografo documenta, le immagini stanno in queste pagine.

Sono sempre più frequenti blitz del genere, da quando nel giugno scorso a Padova è stato eletto sindaco Massimo Bitonci, Lega Nord, parole d’ordine sicurezza, lotta al degrado e all’immigrazione clandestina. Ha scalzato un centrosinistra che per dieci anni su sicurezza e mano forte aveva capitalizzato voti e immagine, con il “muro della legalità” eretto dal sindaco-sceriffo Flavio Zanonato attorno ai sette palazzi verdino sporco di via Anelli, regno di spacciatori, prostitute e papponi. Il muro non c’è più, il ghetto è svuotato e chiuso, la storia no: 125 privati, vittime alcuni e altri che speculando han comprato a due soldi, fanno sì che Comune e Ater non raggiungano il 75 per cento di proprietà necessaria a riqualificare o abbattere.

Quale malessere sfilaccia la città del Santo e del Petrarca, di Freda e Ventura e di Toni Negri? Il centro nobile, fra il Giotto degli Scrovegni e il Caffè Pedrocchi, dove la guerra è con gli studenti che lo invadono ogni mercoledì notte: «Vivaddio, l’università si apre alla città, 20 mila giovani sono emigrati in tre anni!», per la neuropsichiatra Beatrice Dalla Barba, Padova 2020 scissione a sinistra dal Pd; o «bevono, urlano, pisciano, spaccano vetri, peggio degli extracomunitari», per Pierluigi l’anziano taxista pro-Bitonci.

Le periferie, poi. La Guizza a sud, linde villette fascia medio-alta a fianco dei palazzoni popolari disastrati di via Brofferio dove usuali sono i furti in appartamento. Mortise a est, case Ater dove cornicioni e tubature cadono a pezzi, ma un anno fa il Comune gli ha fatto dipingere quattro enormi murales, «forse per dare un’allure di Bronx: 25 mila euro di spesa, pare», è il sarcasmo di Alain Luciani, capogruppo lista Bitonci sindaco, che qui ci vive. A nord, l’Arcella, 40 mila abitanti, trafficanti albanesi, tunisini per lo spaccio al dettaglio: ma Silvestrin il gallerista, Gharazeudine il pizzaiolo, Bellon il parrucchiere, la Allegretto della gioielleria, Associazione botteghe di via Buonnarroti, ti mostrano fioriere, panchine e nuova illuminazione: «Ne abbiamo abbastanza di veder dipinta l’Arcella come un ricettacolo di delinquenza: è piena di stranieri integrati e onesti, comprano come gli italiani, i bambini vanno a scuola, episodi deprecabili accadono dappertutto, comunque ci siamo noi a vigilare». Come mai, rattoppata una falla nel tessuto sociale, subito se ne apre un’altra, non nel marasma delle metropoli Roma o Napoli dove non sai dove mettere le mani ma in una città di 200 mila anime, in parte ancora opulenta, nell’operoso Veneto?

Le Cucine popolari di via Tommaseo, due sale per mangiare, docce, lavanderia, ambulatorio, all’ingresso un caotico viavai, sono ricettacolo di una disparata umanità. Operai rumeni senza cantiere, badanti moldave e ucraine senza più nessuno cui badare. Italiani con i capelli ondulati anni Sessanta, con una casa ma senza un soldo, che qui mangiano un pasto a 2 euro e mezzo o un piatto unico a 50 centesimi. Senzatetto ospitati negli 82 posti dell’Asilo notturno del Comune e altri trecento da Africa, Asia, Est Europa. Persone che dormono su una panchina, sotto un viadotto, in edifici abbandonati o in case scassinate alla bisogna (sì, capita, specie alla Stanga). Il tossico che urla e mostra i pugni. La sballata che torva ti avverte, i giornalisti non ci piacciono. E lui, Hassan, somalo di 26 anni, che apre la cartella e mostra un pacco di diplomi di italiano, informatica e quant’altro, sul cellulare le foto sue di quand’era a Torino, con il console somalo, il sindaco Fassino, la ministra Kyenge: progetti per i connazionali, non foto-opportunity. È a Padova da 8 mesi. Dove dorme? «Sotto dei cartoni, dove trovo un posto libero».

Le Cucine esistono da 130 anni, sono della Diocesi, contano su tredici operatori, cento volontari a turno e lei, suor Lia, minuta, capelli bianchi, dedizione totale ma anche la durezza necessaria a fronteggiare situazioni ardue: dove ora parliamo, un tunisino ha sgozzato un connazionale, storia di soldi e droga. Dice suor Lia che «arrivano sbandati a tutte le ore, la gente che cerca di sopravvivere sulla strada è tanta e senza riferimenti certi, ciò che noi riusciamo a dare è una goccia in un mare di bisogno». Non è tenera nemmeno verso quanti, «generosi e disponibili al volontariato, appena proponi servizi d’accoglienza vicino a casa loro firmano petizioni contro: aiutiamoli, ma un passo più in là». Quadro fosco: «Dirigo le Cucine da vent’anni. Vedo oggi tornare molti che avevamo sistemato allora. Senza niente. E hanno perso anche la speranza». Lì dentro entrano spacciatori, bisogna poterli identificare, ha dichiarato il sindaco Bitonci. Non si schedano gli affamati, gli ha risposto secco Antonio Mattiazzo, arcivescovo di Padova e teologo. Esci, giri l’angolo, al muro un manifesto di CasaPound: «Veneto crocifisso. Stop invasione. Basta porgere l’altra guancia».

Sono 32 mila, a Padova, gli stranieri regolari, altrettanti nel resto della provincia. 32 i rifugiati e richiedenti asilo entro il Progetto nazionale Sprar. 103 i minori stranieri non accompagnati, ospitati in istituti cattolici, costo per il Comune 850 mila euro. Meno di 200 i profughi in gestione alle cooperative, 34 euro al dì dalla Prefettura: ma arrivano, scappano, altri li sostituiscono. «Ora però siamo saturi, i bandi sono esauriti, le amministrazioni non ci aiutano», ha dichiarato nel bilancio di fine anno il prefetto Patrizia Impresa, elencando un lieve calo dei furti in casa, il crollo del consumo di cocaina che costa troppo e il folle aumento di eroina, tre volte tanto, 20 euro a dose, fumata o sniffata.

Ma gli irregolari, i clandestini? Se lo chiedi al prefetto cala il gelo, niente cifre a casaccio. Altri 30 mila, secondo stime ufficiose. Incontrarli è facilissimo. Anche cacciarli dagli edifici che occupano e sbarrare gli accessi, salvo ritrovarli tre giorni dopo nello stesso posto, però all’addiaccio. Tipo Elena, incinta, e Sabrina, con problemi ai polmoni. Romene, sui trent’anni. All’ex Laboratorio di chimica agraria di corso Australia. Di che vivono? «Elemosine. Se no di quello che troviamo nei cassonetti». Lo stesso al decrepito ex-Macello, senza vetri alle finestre. E all’ex-Foro Boario, 15 zingari serbi e 30 romeni. «Certo, operiamo con politiche aggressive, ma nel pieno rispetto delle regole», rivendica Bitonci, alle spalle un bel dipinto della Battaglia di Lepanto con la flotta musulmana in rotta; e difende il suo nuovo regolamento di polizia, divieto di accattonaggio anche non molesto, di vendita alcolici sotto i 18 anni anziché i 16 di legge, di consumo cibi e bevande per strada se non nelle vicinanze dei dehors. E la regola che, nell’assegnazione di case popolari, privilegia chi a Padova risiede da 20 anni.

Il caso
Di giorno carabiniere, di notte stupratore
5/2/2015
«L’amministrazione si accanisce su piccole situazioni di grave disagio ma non ha un’idea né un progetto per accoglienza e assistenza. Non che il centrosinistra abbia fatto molto di più, chiacchiere a parte», attacca Nicola Grigion di Razzismo Stop. Ti porta prima a vedere quattro palazzi Ater in via Strattico, «42 alloggi vuoti, ma in provincia tra pubblico e privato sono 40 mila»: al centro una serra subito eretta per incassare i fondi europei. Poi nella sede di una società di meeting fallita, occupata un anno fa da 55 eritrei, somali, sudanesi, ghanesi, ivoriani, battezzata Casa dei diritti Don Gallo: «Vedi quei pancali usati? Ci fanno poltrone, le vendono a 70 euro».

Tanta gente che arranca. Guerra tra poveri. Aree dove le regole vanno ripristinate, ma regole che quando le applichi generano ingiustizia e assurdità. Vai da don Albino Bizzotti, fondatore trent’anni fa di Beati i costruttori di pace: «Due zingare, Sue Ellen e Jamaica, vendono piantine fuori dall’ospedale. Sequestro e multa di 5.164 euro. Devono andare a rubare?» Nella sede dei Beati, un magazzino pieno di roba da mangiare: assistono 3.200 famiglie. Anziani soli. Immigrati senza nulla. Sinti e rom. «Per loro siamo il punto di riferimento principale».

Lo conferma Elvis Seferovic, quando vai a trovare lui e la sua famiglia, 16 adulti e 38 bambini, fra le otto roulotte e le baracche, povere all’esterno curatissime all’interno, sotto un cavalcavia fra due tangenziali in via Bassette: su terreno privato, uno dei 12 campi nomadi in città, due soli comunali. «Ferrivecchi. Da aziende in Veneto e Friuli raccogliamo e smontiamo lavatrici, stufe e frigoriferi per un po’ di rame e ottone. Non abbiamo avuto niente dal Comune né abbiamo mai chiesto niente», ti dice attorno a un falò. Affitta, vivi come un padovano, gli ha detto il sindaco. «In un alloggio popolare riusciremmo a pagare il canone, ma quale privato affitta a una famiglia con otto figli? E a che prezzo?»