Sarebbe da chiedersi perché si senta l’esigenza di ricordare, sottolineare, festeggiare il compleanno di un giornale, perfino quanto ne valga la pena. Anche se per “l’Espresso” gli anni di vita sono ormai sessanta tondi tondi. Tutto cominciò, infatti, con un numero uscito in edicola il 2 ottobre 1955, e la scorsa settimana Eugenio Scalfari, che lo fondò insieme con Arrigo Benedetti, ve ne ha raccontato qui genesi, motivazioni e obiettivi. Con il dettaglio non indifferente che in verità si voleva dar vita a un quotidiano, ma che per ragioni finanziarie e di sintonie (meglio Adriano Olivetti di Enrico Mattei, si dissero i due), nacque poi un settimanale. Questo. Che del quotidiano, agli inizi, aveva il mitico formato: il “lenzuolo”.
IN EDICOLA ECCO IL PIANO DELL'OPERA
Dunque, dicevamo, perché ricordare e festeggiare? Be’, la prima risposta è: perché questo non è stato, non è un giornale come gli altri. Pensate solo a quel particolare: ma ve li immaginate oggi due intellettuali che non vedono l’ora di disegnare menabò e titolare articoli, e che si fermano dinanzi al timore di un editore troppo ingombrante? Benedetti e Scalfari lo fanno, ripiegano su un progetto meno impegnativo (Scalfari lo riprenderà vent’anni dopo con “Repubblica”) perché vogliono salvaguardare innanzitutto la loro autonomia, i valori nei quali credono e che pensano di dover trasmettere ai loro lettori. Pensano sia una questione di credibilità preventiva. Ne fanno un marchio di fabbrica. Rimasto impresso nel dna di questa testata.
Quando arriva in edicola, poi, “L’Espresso” - allora con la L maiuscola - rappresenta un’assoluta novità. In giro non c’è niente di simile, e diverso da tutti esso resterà per molti anni ancora. Si impone la fotografia, valorizzata, tagliata e ingrandita come il particolare di una tela sul catalogo di una mostra d’arte, e poco conta che si stia parlando di cronaca (nel primo numero è il cittadino americano assolto dopo il linciaggio di un nero), teatro o politica. Ai suoi giornalisti che gli interpretano l’ultimo discorso di Amintore Fanfani al congresso della Dc, Benedetti chiede a bruciapelo: «Di che colore aveva la cravatta?». E forse già pensa a come esaltarne in pagina i pois... In quegli anni, del resto, esplode il cinema, che è commedia e neorealismo, avventura e fantasia, star e attori presi dalla strada: perché un giornale dovrebbe essere diverso da questo universo così affascinante, vivo, multiforme?
Da subito si pretende poi una scrittura curata, accattivante, brillante. Il linguaggio deve liberarsi dell’ossequio, di ogni vano barocchismo, della finta Accademia che tracima in abbondanza dalle pagine degli altri giornali. Un italiano fresco, tagliente e ironico diventa il mezzo per legare finalmente il sacro e il profano, l’alto e il basso, cioè il giornalismo e la cultura, fino ad allora relegata nel pedante elzeviro di terza pagina. L’occhio, inoltre, spazia ora a 360 gradi, in Italia e fuori. Nasce il giornalismo d’inchiesta, che è poi mettere il naso nelle pieghe di un Paese mai raccontato sulle prime pagine; si fa strada il gusto del retroscena, l’impegno della rivelazione, che è poi la voglia di entrare con la penna e il taccuino lì dove non si voleva (e non si vuole) che il giornalismo mettesse mai piede.
E certo non è un caso che simbolo di questo grande esordio sia diventato un titolo, mirabile sintesi dell’inchiesta che presentava: “Capitale corrotta = nazione infetta”. La notizia è il sacco di Roma, edilizio e clerico-democristiano degli anni Cinquanta-Sessanta; ma il passo, dovuto alla penna civile di Manlio Cancogni, è quello di una storia esemplare che disegna costume, abitudini, vizi di un’intera epoca.
Ecco, proprio qui si intrecciano le due anime fondanti dell’“Espresso”. Una volta, parecchi anni fa, chiesi ad Arrigo Benedetti - io esordiente, lui grande maestro prossimo alla fine - una definizione dell’“Espresso”. E Arrigo si limitò a rispondere: «Un certo modo di fare giornalismo». Voleva dire: un giornalismo completamente diverso da quello che c’era allora (e, lo abbiamo visto, anche da quello che ci sarà dopo), un modo di guardare al mondo senza bavagli né pregiudizi, e in più praticato secondo una formula irripetibile vanamente scimmiottata. Insistetti: e cos’era invece per Scalfari? Benedetti rispose con un sorriso: «Un certo modo di intendere la politica, l’economia, il Paese». E si riferiva ai principi politici e morali per i quali vale la pena battersi, ai fondamenti di una repubblica che si voleva - come si diceva allora - laica, democratica e antifascista, all’identità di un Paese in rapida trasformazione, ingabbiato dalla pervasiva presenza democristiana e ansioso di misurarsi finalmente con la modernità.
Quelle parole, nella loro essenzialità, riassumono bene la specialissima alchimìa grazie alla quale Scalfari e Benedetti dettero vita, appunto sessant’anni fa, a un’esperienza che avrebbe segnato il mondo dell’informazione molto di più di quanto avrebbero potuto immaginare. Quelle sono le colonne portanti su cui fu edificato il giornale: totale libertà e sfrontata spregiudicatezza nel narrare i fatti, specie quando il potere vuole tenerli nascosti; massimo impegno civile, politico, culturale; partecipazione sincera, di un giornale e della vasta comunità di valori che esso rappresenta, alla crescita di un Paese alle prese con una transizione incompiuta. Tuttora incompiuta.
Dunque, ecco l’altra risposta: non si festeggia un compleanno, piuttosto si ricorda dove tutto è nato, dove furono costruite le basi che poi hanno modificato il modo stesso di fare giornalismo. E si ripercorre anche la storia che il Paese ha attraversato, e questo giornale puntualmente raccontato.
Ecco, sfogliando “l’Espresso” di questi primi sessant’anni ci si accorge che fin dall’inizio un’unica missione sembra tenere insieme il nucleo dei fondatori (oltre a Scalfari e Benedetti, Antonio Gambino, Carlo Gregoretti, Giancarlo Fusco, Camilla Cederna, Manlio Cancogni, Gianni Corbi, Fabrizio Dentice, Andrea Barbato, Mino Monicelli, Vittorio Gorresio, Lino Jannuzzi…) e le grandi firme (da Pier Paolo Pasolini a Italo Calvino, da Umberto Eco a Enzo Siciliano, Guido Piovene, Alberto Moravia, Dino Buzzati, Elio Vittorini, Ennio Flaiano, Jean Paul Sartre, e poi Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, Roberto Saviano… davvero impossibile citarli tutti): il desiderio di seguire e interpretare passo dopo passo l’evoluzione della società italiana, i cambiamenti del costume, le tendenze culturali, individuarne un filo conduttore. E usando tale metodo anche per capire e raccontare la politica e l’economia, sempre attenti a verificare l’impatto che sull’Italia in crescita avevano i grandi eventi internazionali.
È questa la ragione per cui abbiamo deciso di costruire i dodici volumi che, per dodici settimane, accompagnano ogni venerdì l’uscita del giornale in edicola: non una semplice antologia di articoli, ma dodici grandi stagioni del Paese e del mondo, ogni quinquennio identificato con una parola, un tema, un argomento che caratterizzino quel periodo. Abbiamo cominciato con gli anni del boom, in edicola questa settimana, e poi seguiranno l’Italia che cambia, la rivolta del ’68, la stagione dei diritti civili, gli anni di piombo, le stragi e i misteri, la caduta dei muro, Mani pulite, la guerra vicino a casa, il terrore, la lunga stagione berlusconiana e la grande crisi.
Un modo dunque di fare la storia di sessant’anni attraverso gli articoli, le fotografie, le inchieste, la battaglia delle idee di un giornale. Che non è mai stato solo selezione di notizie, ma specchio di un Paese che ha voglia di cambiare, crescere, superare le sue contraddizioni. Sì, vale la pena ricordare. E anche festeggiare.
“L’Italia cambia - 1960-64” ?Sarà in edicola venerdì prossimo?il secondo dei dodici volumi ?che celebrano i sessant’anni dell’Espresso. Il primo, “Gli anni ?del boom”, è già in edicola. ?.?.