Da mafia Capitale allo scandalo Penati, tutte le inchieste dell'ultima stagione finiscono per sottolineare il ruolo che le fondazioni hanno assunto nella vita politica nazionale. È lì che - in maniera lecita o illecita - affluiscono i finanziamenti per i leader di tutti gli schieramenti: da Massimo D'Alema a Gianni Alemanno
Mafia Capitale, lo scandalo Penati e adesso anche la
tangentopoli ischitana. Non è un caso se tutte le inchieste dell'ultima stagione finiscano per sottolineare il ruolo che le fondazioni hanno assunto nella vita politica nazionale. È lì che - in maniera lecita o illecita - affluiscono i finanziamenti per i leader e persino per i gregari di tutti gli schieramenti,
da Massimo D'Alema a Gianni Alemanno. E, di fatto, oggi questi organismi hanno rimpiazzato le vecchie correnti. «Non ci sono più i partiti. È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni», ha detto il
presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone, il primo a porre la questione in
un'intervista a “l'Espresso” nello scorso dicembre.
L'indagine sulle mazzette a Ischia accende i riflettori sulla prima di queste creature,
ItalianiEuropei, nata nel 1998 per volontà dell'allora premier Massimo D'Alema. Al di fuori della rilevanza penale, l'invito dell'uomo della coop Concordia a «investire in ItalianiEuropei» si traduce in tre bonifici da 20 mila euro ciascuno. Soldi motivati nelle intercettazioni dal loquace
Francesco Simone, perché «D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi... ci ha dato delle cose». Sessantamila euro sono poca cosa, forse, rispetto alle somme che girano nei circuiti del malaffare. E un versamento attraverso bonifici sembra rispettare tutte le forme della legalità. Ma quanti altri contributi ha ricevuto ItalianiEuropei? Impossibile saperlo.
«Diciamo che preferiamo la privacy alla trasparenza», ha spiegato la portavoce di D'Alema
Daniela Reggiani a Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi, autori tre mesi fa di un'inchiesta de “l'Espresso” sulla questione: «I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite. Non è giusto che l’origine di un contributo venga svelata, se chi l’ha fatto sapeva di poter rimanere nell’ombra. È una questione di correttezza». Correttezza verso chi paga, non certo verso i cittadini.
Questo è il cuore del problema.
Fondazioni e associazioni simili sono lo snodo della vita politica ma sfuggono a qualunque controllo. Salvo rare eccezioni, non c'è trasparenza: non devono spiegare chi le finanzia, né come usano le risorse. Le regole contabili sono minime, senza nessuno di quegli obblighi a cui devono sottostare i finanziamenti ai partiti e ai parlamentari. Eppure si tratta di organismi con sedi prestigiose e uffici nel centro storico di Roma, che editano riviste patinate e organizzano convegni di alto livello. Ad esempio «ItalianiEuropei», come scrisse Marco Damilano su “l'Espresso”, ha sede in piazza Farnese, di fronte all'ambasciata francese: nel 2012 aveva un patrimonio di un milione e 600 mila euro, una rivista mensile da appena mille abbonati e da 582 mila euro di pubblicità, a consultare il bilancio della società editrice Solaris (tra gli inserzionisti: Eni, Enel, British American Tobacco, Finmeccanica, Trenitalia, Monte dei Paschi).
Già l'indagine romana sulla ragnatela di Massimo Carminati aveva evidenziato il fiume di cash che affluiva nei conti di diverse fondazioni. C'era Gianni Alemanno con la sua “Italia Futura”, sulla quale è stata dirottata gran parte dei 285 mila euro pagati da Salvatore Buzzi, reuccio delle cooperative romane e braccio destro dell'ultimo re criminale della capitale. E c'era persino l'associazione intitolata alla memoria di Alcide De Gasperi a cui vanno 30 mila euro: è presieduta da Angelino Alfano, a cui invano “l'Espresso” ha chiesto lumi su tutti gli sponsor.
Ma non sono solo i big a usare questi circoli come bancomat.
Luca Odevaine, il funzionario che arbitrava lo smistamento dei profughi diventato l'ultimo grande business, nelle intercettazioni sembra alterare le attività di “Integra Azione” a suo piacimento, sfruttandone i bilanci per mascherare i quattrini ottenuti dalla rete di Carminati.
Una ricerca dell'università La Sapienza curata dal politologo Mattia Diletti ne ha censite ben 105: il 34 per cento sono think-tank di carattere personale, legate alla figura di un leader o di un capo-corrente. Negli anni duemila ogni politico di spicco ne ha creata una. E sono protagoniste sempre più frequenti delle cronache giudiziarie. Dalle vicende di
Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, sono spuntati i fondi a “Centro per il futuro sostenibile”, sigla con vocazione ambientalista creata da Francesco Rutelli e dall’attuale assessore ai Trasporti della Capitale Guido Improta, che secondo l'Ansa sarebbe indagato per i rincari della Metro C, notizia da lui smentita. Invece la “Fondazione della Libertà” che fa riferimento a Altero Matteoli, ex ministro sotto inchiesta per la tangentopoli del Mose, è stata chiamata in causa nello scandalo Enac.
La trasparenza, quando c'è, è sempre parziale.
“Open” di Matteo Renzi indica parte degli sponsor, ma non fa luce su chi partecipa a caro prezzo alle cene elettorali, né all'impiego delle disponibilità. «A livello di percezione questa situazione ha raggiunto limiti di indecenza», ha dichiarato Cantone, chiedendo una legge che stabilisca criteri rigorosi anche per questo settore.
Perché ormai il merchandising usato per finanziare la politica sembra senza confini. La
cooperativa Concordia compra duemila bottiglie di vino dalle cantine di D'Alema e si assicura cinquecento copie del suo saggio “Non solo Euro” per 4800 euro. Ma, in omaggio alla trasversalità imperante, ne paga quasi 12 mila per due diverse opere letterarie di Giulio Tremonti. Un investimento in cultura che forse può spiegare la frenesia editoriale di tanti politici.