Il caso

«Suicidi gay? Spingiamoli all'eterosessualità»: La strana teoria del neurochirurgo anti-gender Massimo Gandolfini

di Simone Alliva   20 aprile 2015

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Un professore di neuroscienza si scaglia contro le persone LGBT: «Il problema è il disagio identitario, che l'educatore deve correggere». Non la discriminazione e l'omofobia, quindi. Ecco il video del suo discorso

Meglio che gay, lesbiche e transessuali tornino “nell’armadio”. Indietro nel tempo e nello spazio: nascosti come sessant’anni fa. L’omosessualità non è una variante naturale del comportamento umano, come afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma un “disagio identitario” che va corretto dall’educatore che deve spingere il gay verso l’eterosessualità.

Lo ha sostenuto Massimo Gandolfini, direttore del dipartimento di neuroscienze e primario di neurochirurgia alla fondazione Poliambulanza di Brescia, durante un convegno organizzato da Comitato Articolo 26, associazione che da tempo si schiera contro quella che definiscono “teoria del gender”. La stessa associazione che durante le audizioni per la nuova legge sulle unioni civili in Senato, paragonò il vincolo affettivo tra due persone dello stesso sesso a quelle che i padroni hanno verso i propri cani.

Gandolfini, che è anche professore a contratto di Neurochirurgia presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, affronta così il tema del suicidio giovanile all’interno della comunità LGBT: “L'incidenza suicidaria della popolazione gay-friendly è molto superiore e si dice che i suicidi sono maggiori perché la società non è accogliente. Per sfatare questa bugia basta andare a vedere i dati del Belgio e della Scandinavia. L'incidenza suicidaria in questi paesi che sono gay friendly rimane molto alta perché in fondo a tutto questo ci sta un disagio identitario. Nella misura in cui una persona si sente disagiata verso se stesso, non è poi così facile vivere.”. Nessuna discriminazione dunque, l’omofobia non c’entra. Non c’entrano gli insulti o i pestaggi.

Frasi che si scontrano con quello che afferma l’American Association of Suicidology, istituzione nel panorama internazionale dello studio e prevenzione del suicidio, per la quale essere lesbiche, gay, bisessuali o transgender non è un fattore a rischio di suicidio, fuorigioco di dubbio, ma lo è per una società che discrimina la gioventù LGBT e che spinge volontariamente e spesso in maniera manifesta verso tentativi di suicidio. Le persone più a rischio sono quelle tra i 15 e i 24 anni, gli adolescenti gay hanno un rischio di suicidio 7 volte maggiore degli adolescenti etero. Uno studente su quattro ammette di essere stato discriminato, insultato, offeso fisicamente per il suo orientamento sessuale.

Tornando in Italia, Gandolfini sostiene che l’omosessualità è un male di vivere che viene da dentro e l’unica soluzione è correggerlo: “Un eventuale "Disagio identitario" va affrontato nella prospettiva del supremo interesse del bimbo. Lo scopo dell'educazione non è scoprire l'orientamento sessuale del bambino per poi indirizzarlo da quella parte perché la sua scelta è libera. E se scopriamo una cosa che si chiama "disagio identitario", lo scopo dell'educatore non è quello di correre dietro al disagio identitario ma è quello di cercare di indirizzare verso una coerenza questo disturbo verso il proprio psichismo.”

Per gli omosessuali italiani dunque si propongono cure, correzioni. A differenza degli Stati Uniti dove solo qualche giorno fa il presidente, Barack Obama, ha condannato senza mezzi termini le cosiddette “teorie riparative”, vale a dire quelle “cure” psichiatriche, ma anche coercitive, che vorrebbero correggere l’omosessualità o, meglio, l’orientamento sessuale di persone gay, lesbiche e bisessuali e l’identità di genere delle persone transessuali. Come se tutto fosse una malattia, cosa che invece non è.