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Attualità
maggio, 2015

Fuerteventura, nelle Hawaii d’Europa: ecco chi sono gli italiani che cambiano vita

Nell'isola delle Canarie vivono oltre cinquemila nostri connazionali. Che hanno lasciato lavori precari o insoddisfacenti per rifarsi un'esistenza in quest'isola vulcanica, piena di surfisti, dove il clima è mite e le tasse ridotte. Ecco le loro storie (Carlo Ramerino per l'Espresso)

"Per i bambini di Fuerteventura il surf è come il calcio per noi in Colombia", dice Brian, 15 anni, da poco immigrato da Bogotà con la sua famiglia. Poi si sistema la muta, prende la tavola e si tuffa in acqua. Siamo tra le rocce nere di playa del Viejo Rey, costa sud-ovest di Fuerteventura, una delle sette isole Canarie. Geograficamente è sud del Marocco, politicamente è Spagna. E negli ultimi dieci anni Fuerteventura ha accolto decine di migliaia di stranieri, italiani compresi, attratti dal mare, dal clima mite tutto l’anno, dalla tasse ridotte e da un ritmo più rilassato: uno stile di vita semplice e a contatto con la natura il cui simbolo, qui, è il surf, uno sport che alimenta il turismo locale e ha spinto tanti a trasferirsi.

Un’ora di automobile più a nord incontriamo in spiaggia María del Pilar Beneito, detta Pili. Ha 38 anni, si è trasferita nel 1998 dall’Argentina e ha fondato la scuola di surf “Fuerte Tribu”. Ha visto l’isola cambiare, massificarsi un po’ per il turismo: «Solo nel mio municipio, a La Oliva, siamo passati da 3 a 30 scuole in 8 anni». Più clienti per lei, ma anche meno tranquillità sulle spiagge. «Una ola una persona: sarebbe la regola. Invece qui spesso su ogni onda si fiondano in cinque», si lamenta. E spiega che questo mette in crisi il “localismo”, quel fenomeno tipico del surf per cui la precedenza - pena a volte qualche schiaffone - deve andare ai surfisti del luogo.
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La nazionalità dei suoi clienti varia soprattutto a seconda che venga introdotto o eliminato un collegamento aereo low cost. «E ora ci sono molte più famiglie», racconta indicando i più piccoli dei suoi allievi che le corrono intorno, tra i quali c’è un bambino marchigiano, arrivato da pochi mesi con i genitori, che stanno ancora cercando lavoro. Ma che cosa insegna il surf ai bambini? «La connessione con la natura, il controllo e l’equilibrio del corpo», risponde Pili: «È uno sport individualista, è vero, ma si sta in acqua tra amici, aspettando insieme le onde. Facevo surf a Mar del Plata, ma qui le onde sono più grandi, è bellissimo, siamo le Hawaii d’Europa».

Rispetto alle altre isole Canarie, come Tenerife, c’è meno turismo di mare, ma il paesaggio è unico. La terra è montagnosa e arida, e la sera spesso arriva la “calima”, il vento che porta la sabbia del Sahara.
Il turismo di massa, per fortuna ancora non preponderante, ha tra le attrazioni l’Oasis Park, il primo zoo delle Canarie, e ora è favorito dalle crisi sociopolitiche del Nord Africa e dalla crescita dei voli economici (per l’Italia da sei città).
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Tra gli europei che si sono trasferiti su quest’isola di origine vulcanica di 100 mila abitanti, conquistata dagli spagnoli nel XV secolo, ci sono tanti tedeschi. Oggi negli alberghi si trova persino un mensile nella loro lingua, il “Fuerteventura Zeitung”, ma il rapporto con la Germania risale già agli anni Trenta, quando il generale Franco permetteva ai sottomarini tedeschi di fare rifornimento da queste parti, e sulla magnifica spiaggia di Cofete si trova ancora, isolata tra oceano e montagne, la famigerata Villa Winter, il cui proprietario Gustav Winter lavorava a progetti segreti per i nazisti.

Gli europei residenti sono 20.218, e di questi ben il 25 per cento, 5.195, sono italiani. Una percentuale che scende bruscamente se si parla di turisti, perché nel 2014 sono stati solo 89 mila su quasi due milioni di vacanzieri provenienti dal Vecchio continente, appena il 4,5 per cento. A Fuerteventura, insomma, ci si viene per vivere: molti trovano lavoro in alberghi e ristoranti, oppure nelle scuole di surf, i cui volantini dominano le bacheche delle hall degli alberghi.

Nella scuola dell’argentina Pili, per esempio, collabora Marco Umilio, 40 anni, romano. Si è trasferito pochi mesi fa e vive in un camper con la compagna. «Nel tempo libero costruivo tavole da surf a Santa Marinella, ma 13 ore al giorno lavoravo al distributore di benzina di famiglia», racconta: «Tra tasse e preoccupazioni, non era vita. E non vedevo mai la mia fidanzata. Come faccio ad andare avanti così fino a 70 anni?, mi chiedevo. Qui è tutto più semplice, la gente è alla mano, c’è sicurezza, spesso non si chiude nemmeno a chiave casa, un po’ come in Italia 50 anni fa. È stata una scelta di vita. Chi fa surf non vuole vivere solo per produrre denaro. In Italia non si respira più, c’è astio, infelicità, e ci si scarica addosso l’uno con l’altro questa rabbia».
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Il surf attira campioni mondiali come Benjamin Sanchis e Tim Boal, ma si pratica molto anche il kitesurf e, soprattutto, il windsurf. Fuerteventura è infatti da 30 anni una delle 11 tappe del Mondiale. Merito della costanza dei venti alisei. E di René Egli, uno svizzero che nel 1984 ha fondato, a Sotavento, la sua famosa scuola di windsurf: 90 dipendenti, 30 mila clienti l’anno, ambiente rilassato, con un albergo di lusso e un ristorante a due passi dalla spiaggia. «Siamo nella parte più fresca e ventilata dell’isola», ci dice Annika Ingwersen, svizzera di 31 anni, guidandoci nella struttura.

Tra pale eoliche, fichi d’india e avvoltoi, il paesaggio è molto cinematografico, e infatti Ridley Scott lo scelse per riprodurre il deserto egiziano nel recente “Exodus”, mentre Sacha Baron Cohen ci ambientò il Paese africano da cui proviene il “Dittatore”. E l’esercito spagnolo si addestrava qui, per davvero, per prepararsi agli scenari dell’Afghanistan.

Più del paesaggio lunare, però, ad attirare sono spesso le possibilità di lavoro. Ai confini dell’impero europeo, si può aprire infatti un’attività in pochi giorni, e le tasse sono basse. «Siamo qui per il vento e per l’Iva al 7 per cento», scherza Paolo Stragliotto, 36 anni di Bassano del Grappa, che dirige la Orange Surf School. Vive a Fuerteventura da 8 anni con la compagna Sara, insegnante di yoga, e una bambina piccola; si lamenta perché le scuole di surf ora devono pagare un canone annuale salatissimo per utilizzare la spiaggia.

Damiano Brogioni, lucchese di 39 anni, ex saldatore, è istruttore della scuola Shock Wave, che fa corsi anche per invalidi. Lo incontriamo a El Cotillo, nel suo negozio per surfisti. Ci accoglie scalzo («Scusate, mi hanno rubato le ciabatte in spiaggia») e racconta come non sempre sia tutto facile: «Se vuoi fare i soldi, non è posto per te. E invece tanti italiani ora arrivano, si vestono chic, pensano di essere sbarcati a Forte dei Marmi».

Le mamme degli espatriati, dopo aver minacciato tuoni e fulmini, si sono arrese all’idea, e oggi passano 3-4 mesi l’anno a Fuerteventura, in fuga dagli inverni italiani. L’atmosfera è liberale, come testimoniano il turismo naturista, quello gay, e persino il carnevale drag queen, felice nemesi per l’isola su cui sotto il dittatore Franco venivano esiliati tanti omosessuali (negli anni Venti ci era invece finito il filosofo Miguel de Unamuno).

Molti dei nostri connazionali mancano da tempo dal nostro Paese, e sembrano italiani geneticamente modificati. Sperduto nella campagna di Lajares, un paesino di pescatori a nord dell’isola, vive ad esempio Wenzel. Ha 41 anni, si è trasferito nel 2000 e viene da Latina, a dispetto del nome austroungarico, ereditato dal nonno. È uno dei tre “shaper” professionali dell’isola, ovvero costruisce su misura e dipinge tavole da surf personalizzate.

Un vero artigiano, con centimetro, sega e pialla. Lavorava da super-precario alla Telecom, oggi è felice nel suo laboratorio tutto dipinto di celeste, a due passi dall’oceano. «Prima gli italiani venivano per cambiare aria, ora per disperazione. Ma l’isola ha un carattere forte, se non gli piaci non duri, ti rimanda a casa», ci dice, mentre lima una tavola e in sottofondo suonano i Led Zeppelin. «L’unica ambizione qui può essere la serenità, ma devi comunque trovarti un mestiere, e con attenzione, perché in un bar che compri per 60 mila euro puoi finire per fatturare 15 euro al giorno. Non esiste un posto al mondo in cui non devi lavorare, se non sei Lapo Elkann. Il paradiso è bello, ma non è gratis».

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