Pubblicità
Attualità
luglio, 2015

Il tunisino di Milano, jihadista da 25 anni

jihad
jihad

Dalla Bosnia alla Libia, la carriera di sangue di Abu Nassim, uno dei capi dello Stato Islamico. Ma in Italia fu assolto

jihad
Ha salutato l'Italia con una fuga da film. Un’evasione ai novanta all’ora. Abu Nassim, nell’aprile 2012, è un super-sorvegliato molto particolare. Assolto a sorpresa in un processo per terrorismo, sta viaggiando su un’auto della polizia che deve portarlo segretamente in aeroporto.

Nel passato di questo tunisino alto, barbuto, silenzioso e carismatico ci sono almeno due guerre civili di matrice jihadista. E sette anni di durissima detenzione in Afghanistan, nel carcere di Bagram controllato dalle truppe statunitensi. In quei giorni il nostro ministero dell’Interno ne ha ordinato l’espulsione come soggetto pericoloso per la sicurezza. Alla Malpensa lo aspetta il volo del rimpatrio forzato. La polizia sta già sfrecciando in tangenziale quando il tunisino si ribella, si scaglia con tutto il suo peso contro un agente, riesce ad aprire una portiera posteriore dell’auto in corsa e si getta rotolando sull’asfalto. Poi si rialza, scavalca il guardrail e scappa nei campi. L’allarme è immediato, ma Abu Nassim sembra scomparso. La sua sparizione viene tenuta segreta, anche per non creare incidenti diplomatici. Il fuggiasco è costretto a nascondersi a casa di un vecchio amico, vicino a Varese, dove viene rintracciato dopo qualche giorno dalla polizia. Ma non si sente sconfitto. Ai capi della Digos, prima di salire sull’aereo per l’espulsione, lancia un torvo messaggio di sfida: «Sentirete di nuovo parlare di me».

Terrorismo
I jihadisti italiani che i giudici non riescono a punire
22/9/2014
Abu Nassim, all’anagrafe Moez Ben Abdelkader Fezzani, sembra aver mantenuto la sua promessa. Oggi è schedato nella banca dati dell’antiterrorismo come uno dei capi militari del cosiddetto Stato Islamico (Is, detto anche Isis o Isil). Tornato libero in Tunisia, nel 2013 è andato a combattere in Siria, secondo le nuove indagini, con una delle più sanguinarie milizie islamiste.

Nel 2014 è ripartito per un’altra guerra, questa volta in Libia, sotto le bandiere nere del califfato. Qui risulta inserito tra i responsabili del reclutamento di giovani jihadisti. Le inchieste internazionali lo hanno localizzato nella zona dell’antica città romana di Sabratha, a una cinquantina di chilometri dal confine con la Tunisia, dove è attivo uno dei primi campi di addestramento militare dell’Is.

Abu Nassim
Da lì, fino all’anno scorso, i reclutatori hanno inviato centinaia di giovani a combattere in Siria e Iraq. Poi il califfo Al Baghdadi ha ordinato di farli restare in Libia, per trasformare anche l’ex colonia italiana in una provincia dello Stato Islamico. E da allora tra i professionisti del jihad che guidano l’infiltrazione dei tagliagole in Libia, secondo i dossier dell’antiterrorismo, c’è anche lui, Abu Nassim, l’integralista tunisino che la nostra giustizia aveva assolto.

Cronaca
Terrorismo, arrestati due jihadisti a Brescia "Volevano colpire gli aerei della Nato"
22/7/2015
Oggi a drammatizzare il suo caso è l’ondata di terrorismo che minaccia anche la neonata democrazia di Tunisi.
Le ultime notizie certe sul suo ruolo di reclutatore-istruttore in Libia risalgono a circa sei mesi fa: da allora l’ex detenuto in Italia potrebbe aver cambiato vita o essere scomparso, morto o ferito in guerra. Se però fosse ancora tra gli addestratori dell’Is, ci sarebbe da preoccuparsi: le autorità tunisine dichiarano ufficialmente che i due terroristi della strage al museo del Bardo, così come il killer dei turisti sulla spiaggia di Soussa, sarebbero stati addestrati insieme in un campo dell’Is in Libia. Proprio quello di Sabratha. Il suo.

Da mesi i giornali occidentali dedicano grande attenzione alle storie dei jihadisti di casa nostra: ragazzine inglesi, rapper tedeschi, ventenni francesi e italiane convertite che lasciano l’Europa per unirsi ai guerrieri del califfo in Siria e Iraq. Ora il caso di Abu Nassim illumina un livello organizzativo più alto: il nocciolo duro di una forza militare globale. Una classe dirigente forgiata in trent’anni di guerre nel nome di un’ideologia politico-religiosa. Con una schiera di reclutatori legati all’Italia.

Moez Fezzani, nato a Tunisi il 23 marzo 1969, arriva a Milano a vent’anni e trova subito lavoro nell’edilizia. Va ad abitare con un amico, Sassi Lassaad, in un appartamento in via Paravia 84, dalle parti di San Siro. È in regola con la legge, accetta i mestieri più duri ed è infaticabile. A calamitare i due giovani tunisini verso una visione ultra-integralista dell’Islam è un predicatore reduce dalla guerra in Bosnia. Sotto la sua influenza, l’appartamento di via Paravia diventa una base per una ventina di ex combattenti (tunisini, algerini e libici) che vivono tra Milano e Bologna. Il primo problema con la polizia è un reato in apparenza minore: nel 1997 Fezzani viene sorpreso a smerciare banconote false in bar e negozi tra Milano e Cremona. Nel 1998 la Procura e la Digos fanno scattare una delle prime retate di jihadisti, chiamata “operazione ritorno” perché riguarda proprio quei reduci dalla guerra in Bosnia.

Fezzani riesce a sfuggire alle manette e diventa latitante: già dall’estate precedente è in Pakistan. Dove viene fermato, all’aeroporto di Peshawar, con due afghani: i basisti di un campo di addestramento per jihadisti stranieri.

Le reti integraliste sono già allora globali: tutti devono aiutare i “fratelli” combattenti. Dopo la Bosnia, la guerra jihadista è esplosa in Algeria. E in Italia Fezzani è accusato proprio di sostenere i terroristi algerini, inviando reclute dal Pakistan e soldi da Milano (ricavati con le banconote false). A Peshawar però quel ricercato tunisino torna libero in fretta. E sposa una pakistana, che gli dona un figlio e quindi il nome di Abu Nassim (padre di Nassim). Nelle indagini più recenti, i primi jihadisti pentiti, come il francese Tlili Lazar e il belga-tunisino Nizar Trabelsi (un ex calciatore diventato terrorista), descrivono il suo ruolo di «capo della casa dei tunisini a Peshawar»: è Abu Nassim ad accogliere i giovani e a smistarli nei famigerati «campi afghani di Farouk e Kalden, dove imparano a usare armi ed esplosivi».

Dopo l’11 settembre 2001, Abu Nassim viene catturato dagli americani e rinchiuso a Bagram. Fuori, la guerra continua. Almeno tre suoi amici tunisini muoiono in attentati-kamikaze in Iraq. Il suo ex coinquilino Sassi Lassaad invece parte per l’Algeria: viene ucciso a Tunisi, nel dicembre 2006, mentre guida un commando armato all’assalto della capitale.

Il giro del mondo del jihadista di via Paravia ricomincia nel novembre 2009, quando Abu Nassim diventa una delle pedine dell’accordo tra la presidenza Obama, decisa a smantellare il sistema delle prigioni segrete che ha per simbolo Guantanamo, e il governo di Berlusconi e Maroni, che accetta in Italia tre reclusi tunisini, con la giustificazione che sono già inquisiti a Milano. Ridiventato così un nostro imputato, Abu Nassim resta in carcere in Italia fino al marzo 2012, quando una corte di Milano lo premia con una clamorosa assoluzione. La sentenza fa infuriare l’antiterrorismo. Ma a favore del tunisino probabilmente ha pesato proprio la lunghissima prigionia a Bagram.

La storia processuale di Abu Nassim finisce allora, con l’espulsione in Tunisia dopo la fuga in tangenziale. Stando alla sentenza di tre anni fa, quel tunisino era solo un ideologo del jihad, non un combattente. Il problema è che le nuove indagini, che devono ancora essere confermate dai giudici, mostrano una seconda vita di quell’assolto che sembra una variante incattivita della precedente. Tornato libero in Tunisia, infatti, Abu Nassim entra, con altri jihadisti già condannati in Italia, nel gruppo dirigente di Ansar Al Sharia, la fazione islamista più violenta, fondata dall’emiro Seifallah Ben Hassine (ucciso di recente da un drone americano).

Nell’autunno 2013, secondo la polizia italiana, Abu Nassim parte per la guerra in Siria con la brigata Al Battar, la prima a giurare obbedienza al Califfato. E dal 2014 si sposta in Libia, per gestire il nuovo campo per jihadisti pronti al martirio e anche al terrorismo. In attesa di saperne di più, i nostri inquirenti cominciano a pensare che dalla Bosnia all’Algeria, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Siria alla Libia, i jihadisti stanno combattendo da decenni la stessa guerra, sempre più globale.

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità