La notizia è rimasta in taglio basso. Eppure è buona. Nel senso letterale. E sicuramente nuova. Foggia: 14 immigrati denunciano alla Cgil di non essere stati pagati per quattro giorni di lavoro. Raccolta di pomodori. Compenso dovuto: 2 euro e 50 a cassone. Una miseria. Il sindacato segnala il caso “all'Organizzazione di produttori del Mediterraneo”, un consorzio che associa 150 aziende della zona, fra cui quella segnalata.
Fin qui, è cronaca di “normale” sfruttamento. Di quella schiavitù stagionale che l'Espresso denuncia da anni e che ha causato la morte di diversi braccianti anche quest'estate, morti di stanchezza e di fame. Ma ora arriva la novità. La speranza: il consorzio ha espulso immediatamente la società incriminata. E ha pagato ai lavoratori il dovuto, secondo la tariffa legale di 48 euro al giorno, molto più alta di quello che avrebbero dato loro i caporali.
Certo, è un segnale minuscolo. E in un'estate di grande attenzione sociale al problema dello sfruttamento nei campi. Ma è un segnale che qualcosa può cambiare. Che deve cambiare, perché la cappa di complicità sugli schiavi della raccolta è ancora granitica, come racconta Guglielmo Minervini, consigliere regionale in Puglia ed ex assessore (per due volte) con Vendola, in prima fila nella lotta per la dignità del lavoro.
«A Foggia sono registrate 24mila micro-aziende agricole che si occupano della raccolta di pomodori», racconta; «Nel 2014 solo seimila avevano dichiarato giornate lavorative. Le altre 18mila niente. Come se i pomodori si fossero messi da soli nei camion. È una prova evidente, un'autodenuncia quasi, del fatto che quelle 18mila stanno lavorando irregolarmente. In nero. Ovvero: senza garantire diritti agli stagionali».
In Puglia, su 350mila aziende agricole registrate, 242mila dichiarano di usare solo manodopera familiare. A Foggia, considerando tutte le coltivazioni, sono 60.500. E più della metà, anche qui (36mila), sostiene di non aver bisogno di braccianti.
Nonostante l'evidenza e la dimensione del fenomeno, ai primi incontri in prefettura, convocati dalla Regione nell'estate 2014 per rafforzare la repressione della schiavitù, «i funzionari degli organismi di controllo e le associazioni di categoria nicchiavano», racconta Minervini: «Dicevano che “mancavano loro informazioni” sui produttori». Tacevano, insomma.
Sintomo evidente di «un clima culturale, prima ancora che politico, che giustifica ancora le condizioni di sofferenza a cui sono sottoposti i braccianti», sostiene il consigliere regionale. Da quegli incontri nacque “EquaPulia”, un bollino da applicare ai pomodori prodotti da aziende che rispettavano la legge, e un protocollo fra istituzioni per il controllo del settore. «La Coldiretti partecipò alle riunioni ma non firmò l'accordo», ricorda Minervini: «Sostenendo che prima avrebbero dovuto cambiare i contratti agli agricoli».
Ma evitando così di affrontare il discorso “schiavitù”, che invece si mostrava palese e tracotante, per l'ennesima estate, in tutta la regione. Seguendo un copione che ancora si ripete. «Facemmo una lista di stagionali per regolarizzare gli immigrati», continua Minervini: «Funzionò: si iscrissero in 800. Ma le aziende del territorio non ne presero dall'elenco nemmeno uno. Nemmeno uno».
Insomma: lo sfruttamento nei campi è conosciuto. A tutti i livelli. E tollerato. A tutti i livelli. A partire da chi guida i camion, dai caporali, i primi a finire sui giornali. Fino ad arrivare ai produttori, la cui complicità col sistema più raramente fa notizia.
«Quando il protocollo fu pronto invitammo tutte, ma proprio tutte, le società della filiera del pomodoro in Puglia a sottoscrivere l'impegno contro il lavoro nero», racconta Minervini: «Ci risposero solo FuturAgri, Granoro, e LegaCoop. Gli altri voltarono le spalle».
Gli altri, tutti: «Da Mutti a Princes, che è un gigante a Foggia nella produzione di pelati. Fino all'Auchan, alla grande distribuzione». Princes, che a Foggia ha una fabbrica di 120mila metri quadri dove vengono lavorate 300mila tonnellate di pomodori freschi all'anno, sul proprio sito dichiara di avere a cuore “la sostenibilità del prodotto” e “la responsabilità sociale”. Non nei confronti dei lavoratori, a quanto pare.
«La filiera - produttori, confezionatori, distributori - è la chiave dello sfruttamento», sostiene Minervini: «Quest'estate siamo arrivati a pomodori venduti a 8, 9 centesimi al chilo. Le aziende agricole si fanno concorrenza solo sul prezzo. Così è una gara al ribasso. Dove in fondo alla piramide ci sono gli sfruttati. E in alto i distributori, a cui giova strozzare il mercato».
Il caporalato, così, diventa “tradizione locale”. Il prezzo dei pomodori resta basso. Ogni elemento della filiera ci guadagna. E la morte e la sofferenza degli schiavi non arriva mai a scuotere tutta la piramide.
Come cambiare? «Io penso che l'unica arma che ha la regione siano i soldi», conclude Minervini, che ha presentato la sua proposta in una nota pubblicata pochi giorni fa dal consiglio regionale: «Per questo istituii da assessore un rating della legalità. Gestito dalla prefettura. Che permette di valutare le assegnazioni di fondi sulla base delle segnalazioni sul rispetto dei lavoratori. Ora suggerisco un “daspo”: chi sfrutta dev'essere bandito dai finanziamenti pubblici. Gli incentivi devono andare alla costruzione di una filiera unita, com'è in Trentino quella della mela».
Poi ci sono i contributi europei: in Puglia sono previsti otto miliardi solo di fondi strutturali, per i prossimi anni. Di cui uno sarà dedicato all'agricoltura: «Ecco, partiamo da questi», suggerisce il consigliere: «Partiamo dai controlli. E dallo stabilire che chi verrà beccato a sfruttare, a sottopagare, a lasciare nel nero, senza dignità, migranti e italiani braccianti, non potrà ricevere un euro». Forse, così, qualcosa cambierà