Puglia

C’è speranza tra gli ulivi. In Salento il primo raccolto dall’esperimento anti Xylella

di di Angiola Codacci-Pisanelli   23 settembre 2019

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È un progetto del Cnr: si innestano sulle piante malate varietà resistenti al batterio. Arrivano i primi risultati. Ma intanto centinaia di produttori hanno diversificato le colture: alberi da frutto, patate, avocado

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Un raccolto di cinque quintali di olive. Che produce cinquanta litri d’olio. Sembra niente, e invece quello che è successo a fine agosto a Gagliano del Capo, in provincia di Lecce, è un evento eccezionale. Per due motivi: perché è molto in anticipo rispetto alla tradizione (in questa zona di solito si raccoglie nella seconda metà di ottobre). Ma soprattutto perché è il primo raccolto di “olivi nuovi”, innestati in modo da resistere all’aggressione della xylella, il batterio che in soli sei anni ha fatto seccare circa tre quarti degli uliveti del Salento.

Queste olive della speranza nascono da piante malate, che nel 2016 sono state potate fino al tronco e innestate varietà resistenti al batterio. L’esperimento, che il Cnr ha realizzato su 13 ettari dell’azienda di Giovanni Melcarne, produce ora le prime olive ma non ha ancora risultati di valore scientifico:«Per avere risultati scientificamente certi ci vorranno anni», sottolinea Melcarne. «Ma i nostri alberi seccano a un ritmo tale, che se aspettiamo non ci sarà più nemmeno un albero da innestare. Per questo abbiamo già organizzato corsi con la Coldiretti: in tanti si stanno informando per provare questo metodo».

La maturazione precoce è in parte un regalo del riscaldamento globale, in parte una caratteristica delle varietà innestate: «È stata una doppia scommessa», spiega Melcarne. «Non solo contro la xylella, ma anche per cercare una nuova nicchia di mercato: un “olio novello”, settembrino, per riconquistare la fiducia dei consumatori convinti ormai che l’olio del Salento non esista più».

In realtà la produzione non si è fermata del tutto. «Però il nostro frantoio principale lavora al 10 per cento rispetto a prima, e il secondo non lo apriamo più», racconta Enzo Manni, direttore della cooperativa Acli di Racale. «Chi aveva puntato tutto sull’olio ha dovuto chiudere: diversi frantoi sono stati smontati e venduti in Tunisia e Marocco. Noi per fortuna abbiamo diversificato le coltivazioni fin dall’inizio. Il cuore della nostra produzione è la patata novella di Galatina: la esportiamo fino in Finlandia».

La zona di cui parliamo è lontana dal fronte in cui si combatte l’espansione dell’epidemia, dove la guerra al batterio killer si è inacidita tra battaglie legali e uno tsunami di fake news. L’avanzata del male è documentata sul sito “Emergenza Xylella” curato dalla Regione Puglia: la “zona di contenimento” va da Fasano a Taranto, mentre la “zona cuscinetto” comprende Monopoli sull’Adriatico e Massafra sul Golfo di Taranto. È qui che, con una misura decisa dalla Commissione europea che ha causato proteste eclatanti, la scoperta di ogni olivo malato deve essere seguita dallo sradicamento di tutti gli alberi nel raggio di 100 metri. In provincia di Lecce questo problema non c’è: è “zona infetta”, gli alberi malati qui non fanno più notizia.

In Salento oggi gli olivi si dividono in tre categorie. I più numerosi sono quelli morti: le strade intorno a Gallipoli, dove i primi focolai della malattia sono stati scoperti nel 2013, sono circondate da distese spettrali di tronchi contorti coronati da ramoscelli secchi. Sono campi che in questa fine estate sono finiti spesso bruciati da incendi che inquinano l’aria ma risolvono il problema - costoso e burocraticamente estenuante - dell’espianto degli alberi secchi.

Spesso vicino agli uliveti morti si vedono alberi ancora verdi, magari con qualche ramo ingiallito ma per il resto apparentemente sani: «Quasi sempre in realtà sono malati», commenta Melcarne. «La malattia può essere asintomatica per 2 o 3 anni ma poi progredisce con una velocità impressionante. Lo abbiamo visto a Supersano: un anno dopo la scoperta dei primi esemplari malati, tutti gli olivi della zona erano secchi».

Alcune piante, però, resistono. Ed è su questa terza categoria che si incentrano le speranza di chi, come dice Melcarne, «non sopporta di stare con le mani in mano». Alcuni sono olivi di varietà che sono state riconosciute come resistenti alla xylella: la più diffusa in questa zona è il leccino, mentre è meno frequente la FS17, o “Favolosa”, brevettata più di vent’anni fa dal Cnr che cercava una varietà resistente al gelo. Molti alberi che restano indenni sono però esemplari singoli, ibridi locali. Melcarne in questi anni ne ha identificati una trentina: «Li coltivo in una serra e li stiamo inoculando con il batterio per controllare che non si ammalino».

Questa minuscola quantità di alberi ancora produttivi è quello che resta del mare di olivi che producevano “olio lampante”, il combustibile che, prima che si diffondesse l’uso del petrolio, ha fatto la ricchezza di questa zona. È difficile immaginare il Salento come un Texas del Settecento, eppure è così. Dopo la decisione di Carlo di Borbone che tolse le tasse per decenni a chi produceva olio, i boschi di lecci, le altre coltivazioni e le zone di macchia mediterranea hanno lasciato il posto agli olivi fino a farne quasi una monocultura.

Poi il petrolio ha sostituito l’olio d’oliva, il Salento si è impoverito ma gli alberi sono rimasti: la produzione si è raffinata, la qualità è migliorata, mentre gli uliveti con il passare dei decenni diventavano sempre più belli. Il recente boom turistico del Salento deve molto a questi alberi, ai loro tronchi contorti da secoli di vento e alle foglie dal verde argentato. «Fino ad oggi la bellezza delle campagne è stata data per scontata», nota Melcarne. «Ma d’ora in poi si dovrà riconoscere un contributo economico a chi si sforza di preservare il paesaggio». Continuare a coltivare olivi in terra di xylella è un’impresa eroica che va ricompensata. Altrimenti, tutte le aziende si convertiranno ad altre coltivazioni: fichi, melograni, avocado.

Anche chi decide di cambiare, comunque, deve fare i conti con il batterio, che attacca non solo l’olivo ma centinaia di altre piante. Tra loro ciliegi, peschi, e anche i mandorli che sono un’altra coltivazione tradizionale della provincia di Lecce. «Sui mandorli però si può lavorare», commenta Melcarne. «Finora ci si è concentrati sull’ulivo, ma non sarà difficile identificare varietà di mandorlo resistenti al batterio».

Chi frequentava il Salento prima dell’epidemia si sente un po’ come chi ricorda i night-club di New York prima dell’arrivo dell’Aids. Per il virus Hiv però una cura si è trovata: per la Xylella invece sembra non esserci nessuna speranza. L’unico precedente di una epidemia così devastante, la filossera che all’inizio del Novecento distruggeva dalle radici tutte le viti europee, è stata sconfitta solo grazie a un vitigno americano che resiste alla malattia. E in California, di fronte a un germe della stessa famiglia della xylella salentina che però attacca la vite, l’unica soluzione trovata è stata quella di spostare i vigneti più a nord, in zone in cui il batterio non sopravvive.

«Al momento, contro il batterio non funziona nulla - anche se sono in prova sia alcuni composti sia alcuni sistemi di lotta biologica», ammette Enrico Bucci, biologo che alla lotta contro la xylella e contro le fake news che hanno aggravato l’epidemia ha dedicato articoli fondamentali». Il batterio però è trasportato dagli insetti, «e alcuni lavori recentemente pubblicati dal gruppo del professor Francesco Porcelli dimostrano come una lotta ben diretta da sola basterebbe a fermare l’avanzare dell’epidemia».

Il futuro è degli ulivi resistenti, anche perché così si eviterebbe un rischio: trovare un rimedio in grado di uccidere la xylella potrebbe spingerla a una mutazione: la conseguenza sarebbe «l’insorgenza di ceppi resistenti, come accade nel caso della resistenza agli antibiotici. Questo problema è molto meno rilevante se invece si arriva a coltivare olivi resistenti, visto che il batterio potrà continuare a proliferare nelle tantissime altre specie suscettibili e non avrà quindi bisogno di mutare per sopravvivere».

Quindi avanti con gli innesti, che salvano almeno il tronco di alberi secolari, e con la sostituzione degli olivi secchi con varietà a prova di xylella. «In campi distrutti sono stati trovati esemplari ibridi spontanei», conferma Bucci. «Queste piante, che sono autoctone e imparentate alle varietà coltivate in Puglia, potrebbero dare origine ad oli con caratteristiche vicine a quelle tradizionali, oltre a rigenerare il paesaggio con piante più simili alle attuali». È il sogno di Melcarne: «Sarebbe bello riuscire a combattere la xylella piantando olivi originari della nostra terra». La speranza è di trovare un olivo che sia l’equivalente della “vite americana”, ma di trovarlo in Salento.