Quattro opinioni (e quattro libri) prendono posizione sul distacco dei bambini dalle famiglie mafiose

Foto di Pietro Masturzo per l'Espresso
«Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ?ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo». Sembrano parole inventate per giustificare i giudici calabresi che tolgono i figli a chi ?è condannato per mafia per dare a quei ragazzi un futuro lontano dalla delinquenza. Invece sono parole vere, dette da un giovane mafioso che per ?i suoi crimini sconterà 26 anni, continuerà a sognare di costruirsi una vita migliore ?e alla fine, sconfitto da una burocrazia ancora più impietosa dell’ergastolo “ostativo”, uscirà come il Miché di Fabrizio De André: «Adesso che lui s’è impiccato ?la porta gli devono aprir...».
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Quei minori tolti a mamma Mafia
13/1/2016

Siamo a Torino alla fine degli anni Ottanta, ai margini di un maxi processo alla mafia catanese. Salvatore, uno dei più pericolosi tra i 242 imputati che assistono alle udienze chiusi in gabbie d’acciaio, chiede un colloquio al Presidente della Corte d’Assise, Elvio Fassone. Le sue parole, ?con quella nostalgia per un destino diverso da quello assegnatogli dalla «lotteria della vita», segnano un punto di svolta nel rapporto tra quel pluriomicida e il giudice che firmerà la sua condanna. Ne nasce un rapporto epistolare durato 26 anni, un libro composto e struggente (“Fine pena: ora”, Sellerio) e l’impegno personale di Fassone per mitigare una pena che «è una vera barbarie: una sentenza della corte europea del 2013 ci obbligherebbe a riesaminare caso per caso dopo 25 anni di carcere».

Nel libro il rapporto malato tra infanzia e mafia torna tre volte. Nel bambino che Salvatore era e che non aveva altra strada che la delinquenza. Nei figli che non ha potuto avere dalla “ragazza perbene” ?che non ha fatto in tempo a sposare ?e che dopo anni d’attesa ha rinunciato ?ad aspettarlo. E nell’ansia per i nipotini, «quattro discoli» che con il padre anche lui in carcere e la madre che «si arrabatta come può» ormai «non rispettano nessuno». Salvatore si tormenta: ?«Dovrei esserci io insieme a loro, gli direi di studiare e di imparare a fare un lavoro altrimenti finiscono dove sono finito io».

Eppure Fassone non è favorevole all’idea di togliere i figli ai mafiosi, un provvedimento che, se andasse avanti una proposta presentata nel 2014 dal deputato renziano Ernesto Carbone, potrebbe diventare legge. «Sono sempre riluttante davanti agli interventi coercitivi, anche se fatti con la certezza di “fare del bene” a un innocente», spiega Fassone. «Mi rendo conto però che quando un nucleo è radicato in ambito mafioso può essere ?una scelta accettabile. Purché però non si perdano i contatti con la madre. Pensiamo a questi bambini: con il padre in carcere, ?la madre diventa ancora più importante...».

A preoccupare l’ex giudice torinese quindi non è tanto la possibilità che la perdita dei figli diventi una pena accessoria ancora ?più esasperante per dei condannati già difficilissimi da recuperare, quanto l’effetto sui bambini. Che oltretutto quando arriva ?la decisione dei giudici sono spesso ?già adolescenti. Non è troppo tardi? ?No, spiega Massimo Ammaniti, specialista di psicologia dell’età evolutiva. Nel suo “La famiglia adolescente» (Laterza), lo studioso mette a fuoco gli anni in cui «si conclude per i figli la fase del rispecchiamento e comincia - o dovrebbe cominciare - un processo diverso, la mentalizzazione». ?È questo il momento giusto, spiega ?a “l’Espresso”, «per cercare di costruire un senso civico che nasce da un’educazione a far proprie le regole e a capire il punto di vista dell’altro. Un’educazione all’empatia e alla mentalizzazione, la capacità di “leggere nella mente dell’altro” che entra in crisi fra i dodici e i quattordici anni, quando i ragazzi iniziano a prendere ?le distanze dal modello dei genitori».

Ma il distacco forzato dai genitori è giustificato? «Sì, perché chi cresce in una famiglia mafiosa è vittima di una forma di abuso psicologico. Non è molto diverso da quello che succede ai bambini soldato della Sierra Leone. Toglierli alla famiglia è un modo per proteggerli da un meccanismo di affiliazione tanto più potente perché fa uso anche dell’affetto. E dal pericoloso senso di onnipotenza che ne deriva: appartenere a una famiglia mafiosa crea un’identificazione col gruppo che porta a un disturbo dell’identità, perché ci si sente parte di un sé grandioso». E comunque parliamo di affido temporaneo, «ben diverso dalla pulizia etnica o politica, ?dai bambini tolti ai nomadi in Svizzera o ai desaparecidos in Argentina».

Questi distinguo non bastano a chi considera i provvedimenti «una vera barbarie, oltretutto con risultati minimi». ?È categorica Silvana La Spina, scrittrice catanese che nell’ultimo libro, “L’uomo che veniva da Messina” (Giunti) si è allontanata dall’attualità, ma che all’atteggiamento dei bambini di fronte alla malavita ha dedicato anni fa “La mafia spiegata ai miei figli ?(e anche ai figli degli altri)” (Bompiani). ?«Lo Stato non può pensare di salvare un solo bambino lasciando intatta la cultura malata di interi territori. Deve entrare nelle famiglie: medici, psicologi, assistenti sociali devono trovare gli “anelli deboli” che possono spezzare la catena, lavorare con le donne che sempre più spesso si oppongono silenziosamente». Allontanare un singolo bambino dal “contagio” «può creare una forma di rancore controproducente», nota la scrittrice. Che aggiunge: «Se è vero che la ‘ndrangheta ha ancora comportamenti tribali, lo Stato non può limitarsi a togliere un bambino dalla tribù. Deve aiutare la tribù intera».


«I giudici calabresi hanno ragione», ribatte Melita Cavallo. «Ne sono convinta fin dagli anni Novanta: l’ho scritto chiaramente nel mio libro “Ragazzi senza”. Se si fosse intervenuti allora non vivremmo lo stato di cose di oggi». Alla vigilia dell’uscita di “Si fa presto a dire famiglia” (Laterza), ritratto delle “nuove” famiglie italiane attraverso quindici storie vere, l’ex presidente del tribunale per i minorenni di Roma da poco in pensione ha ben presente la situazione delle famiglie mafiose: «Non si può mai procedere per categorie. ?Il Tribunale decide sui casi singoli: non concorderei mai con un allontanamento ?“di massa” dei bambini da ambienti mafiosi, ‘ndranghetisti o camorristi. E comunque ?si nomina un tutore che fa da tramite tra ?la famiglia e il bambino nella sua nuova situazione: si evita così che nel piccolo si crei una ferita che non sarebbe facile risanare nel tempo».

Ma c’è un altro modo di sottrarre questi piccoli alla “lotteria della vita” che ?li porta alla delinquenza. «Lo Stato deve intervenire pesantemente: non con esercito ?e polizia ma con la scuola. Una scuola che prende bambini e ragazzi dalle 8 alle 16, 30, ?in un territorio ricco di ludoteche, palestre ?e luoghi di incontro per suonare, disegnare, leggere, creare insomma un gruppo alternativo al modello familiare. Questo tipo di politica non paga subito, i suoi effetti si registreranno dopo anni, ma salverà migliaia di ragazzi». E non ?più solo i bambini del singolo camorrista che ?a vent’anni da quando lei aveva deciso l’allontanamento dei figli le scrisse dal carcere ringraziandola «perché i ragazzi si erano salvati».

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