I numeri del ministero, in aumento, confermano la difficoltà di conciliare l'occupazione con la prole. Tanto da spingere molte madri a dimettersi. Senza considerare quelle precarie, alle quali basta non rinnovare il contratto
Assenza di asili per i piccoli, di un aiuto dei parenti, impossibilità di ottenere un orario consono alle proprie esigenze. Sono tanti i motivi che spingono una neo-mamma a lasciare il proprio impiego. La prevalenza di contratti a tempo determinato rende impossibile una stima delle madri che smettono di lavorare dopo il parto. Una indicazione viene tuttavia dal servizio ispettivo del ministero, chiamato a verificare che le dimissioni presentate da una dipendente in gravidanza o nei primi tre anni di vita del bambino siano genuine e non frutto di pressioni o comportamenti illegittimi.
Il trend è in crescita e i numeri sono significativi, sebbene le convalide siano previste sono nei casi di interruzione anticipata del rapporto di lavoro e quindi riguardi per lo più chi ha un contratto "stabile" (ai precari basta non rinnovare quello scaduto). Nel 2015 sono state 25.620 le madri che hanno presentato dimissioni volontarie (tremila in più del 2014): prevalentemente impiegate e operaie e per metà con un'anzianità di servizio inferiore a tre anni.
Che cosa le ha spinte a questa decisione? Quasi 10mila (9.395) hanno indicato la voce "difficoltà di conciliare il lavoro e le esigenze di cura della prole", variamente declinata: assenza di parenti di supporto (4.700), mancato accoglimento al nido (3.482) ed elevata incidenza dei costi di assistenza del neonato (1.213). Una crescita del 10 per cento che, riconosce il rapporto del ministero, conferma quanto le famiglie di origine continuino a rappresentare un tassello fondamentale per "compensare la carenza di strutture di accoglienza sul territorio nazionale". Ma c'è pure chi indica la mancata concessione del part time o la semplice modifica dei turni come motivazione: nel 2015 in 1.311 hanno detto addio al posto per questa ragione.
«Accade spesso che,
sotto la pressione dei datori, le lavoratrici siano costrette a dimettersi perché si trovano in stato di gravidanza o entro il primo anno di vita del bambino. E molte vengono "convinte" con la possibilità di beneficiare dell'indennità di disoccupazione, che può oscillare fra 800 e 1.200 euro per un periodo che va da 12 a 24 mesi» commenta Gualtiero Biondo, responsabile nazionale degli Uffici vertenze della Cisl. Per chi si rifiuta, o semplicemente non ha un principale abbastanza "accorto", può arrivare il licenziamento. Che però di rado viene contestato, anche quando se ne avrebbe tutto il diritto, ammette il sindacalista: «Da gennaio a oggi, su mille pratiche aperte, solo 20 sono relative a licenziamenti in gravidanza e cinque perché avvenuti entro il primo anno di matrimonio. A conferma che poche intentano un contenzioso vero e proprio».
«Prima della riforma Fornero la reintegra per i licenziamenti senza giusta causa era prevista sempre, col Jobs act solo se avvengono durante la maternità o sono discriminatori» spiega Stefano Muggia, avvocato giuslavorista. «Ma il problema è che c'è tutta una zona grigia difficile da dimostrare, perché l'onere della prova spetta al dipendente. E la verità è che dopo il primo anno di vita del bambino la madre lavoratrice viene sostanzialmente abbandonata».