Sono passati due mesi dal primo sisma che ha colpito il Centro Italia. La Protezione Civile ha agito bene e in fretta, valutando l’agibilità o meno delle case con una precisione che ha permesso di non aver nemmeno un morto a fronte delle nuove scosse. Siamo bravi nella gestione dell’emergenza, da tutto il mondo riconoscono la nostra rapidità e precisione dopo l’intervento. Il nostro limite è il prima.
Se la capacità di messa in sicurezza è stata così alta, nemmeno in questo caso abbiamo saputo agire in prospettiva, pianificando il futuro. Le voci che si susseguivano nelle interviste delle prime ore mostravano uno scenario di paesi al buio, con la popolazione costretta a passare la notte in macchina, in attesa, senza prospettiva. Un territorio perduto nel timore di non riconoscere più la propria fisicità, divenuta d’un tratto ostile.
Non è tempo di polemiche, non lo è mai dopo un disastro, non lo deve essere. E giudicare non è parte del mestiere di chi scrive. Ma è certamente tempo di farsi delle domande e di trarre delle lezioni dall’esperienza. La prima domanda è: com’è possibile che in due mesi da un terremoto, in un’area a rischio, non si sia valutata la solidità delle grandi strutture comunali, come scuole o palestre, per riconoscere uno spazio al coperto dove accogliere i cittadini la notte in caso di nuova emergenza? La seconda domanda è: cosa sarebbe successo se, anziché nella piovosa ma calda notte del 26 ottobre, la prima scossa di questa nuova serie fosse arrivata in una fredda e nevosa notte di inizio gennaio?
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Chi scrive conosce molti dei comuni colpiti per averne valutato i piani d’emergenza: Valtopina, Preci, Vallo di Nera, Campello sul Clitunno, piccoli e medi borghi umbri. Ho seguito l’evolvere del terremoto confrontando quanto avveniva con i dati a mia disposizione, occasione rara per chi si occupa di riduzione del rischio di disastro. Era evidente d’un tratto il perché la luce elettrica mancasse così a lungo, perché la gente doveva prepararsi ad una notte in macchina, o ancora perché c’era la sensazione di un caos tenuto assieme solo dalla notevole presenza di uomini e mezzi della Protezione Civile e dei Vigili del Fuoco: perché, nonostante le esperienze recenti, e nonostante l’alto rischio, la percezione degli abitanti e degli amministratori non era quella che deve avere un’area così esposta. Non erano preparati.
I sindaci non avevano piani da seguire o collaboratori esperti nei diversi settori su cui prendere le decisioni necessarie. I corpi di intervento locali non avevano partecipato ai processi di pianificazione, e quindi agivano secondo le direttive dei propri superiori, per un fortuito e irripetibile caso presenti nell’area per il sisma precedente. La popolazione non aveva a disposizione indicazioni sui comportamenti più opportuni, sulle vie di fuga sicure, su luoghi caldi e sicuri in cui ripararsi. E tutti hanno scoperto di vivere in un luogo diverso, ora spaventoso, irriconoscibile.
Beninteso, non stiamo affatto parlando di comuni in cui la pianificazione dell’emergenza è particolarmente scarsa rispetto al panorama italiano. Al tempo decisi di fare la tesi di dottorato sui piani d’emergenza comunali dell’Umbria proprio per gli investimenti di questa Regione nella gestione delle catastrofi, nella speranza di trovare almeno lì strumenti capaci di rispondere adeguatamente al rischio. Il risultato fu deludente: mostrava un’Italia impreparata al disastro anche nelle zone più in pericolo, incapace di comprendere come organizzare la propria sicurezza, come prepararsi di fronte al rischio.
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Nessuno è responsabile, ma tutti ora siamo chiamati ad agire. Se non è tempo di fare processi a nessuno, è ora però di comprendere come mettere il territorio italiano in condizione di conoscere i propri rischi e di sapersi difendere. Spesso non siamo consapevoli dei rischi reali di un territorio, abituati a considerare il pericolo collettivo come un elemento da libro di storia. Ci siamo abituati a considerare le nostre città come luoghi sicuri, pericolosi al massimo socialmente, e abbiamo relegato i disastri a un ruolo di invasione aliena. La vera questione della sicurezza, in un Paese così a rischio sismico e idrogeologico come l’Italia, è quella della difesa delle vite, del patrimonio e del costruito dalla normale evoluzione del nostro sistema naturale. Poche regioni italiane non sono state colpite da terremoti violenti negli ultimi due secoli, eppure ogni volta pare sia la prima.
Così i piani d’emergenza spesso non vengono realizzati, o vengono sviluppati come raccolte di dati illeggibili e non operativi. I comuni, oberati di altri compiti, demandano a studi privati la realizzazione del più prezioso strumento per la loro sopravvivenza, che si limitano, quando lavorano bene, a raccogliere tutti i dati richiesti per legge, senza un vero pensiero sul territorio, sulle sue debolezze e sulle sue potenzialità. I comuni finiscono così per pensarsi in un ambiente sicuro, scommettendo su una roulette russa che, in questo caso, in assenza di un terremoto pochi mesi fa, chissà quante vittime avrebbe potuto fare.
L’effetto è quello di questi giorni: sindaci che devono prendere iniziativa da zero, coordinandosi con il cuore e la disponibilità assoluta dei volontari, ma senza la serenità che deriva solo da una preparazione e da una dimestichezza con il rischio. In questa occasione abbiamo vissuto un avvertimento che, per una volta, si è concluso senza vittime, prendiamo questa occasione come il momento per cambiare strada.
Non è un problema da Parlamento o da Governo: abbiamo leggi avanzatissime sulla pianificazione e sulla gestione dell’emergenza. È una questione di mentalità locale, di consapevolezza della reale forma del nostro ambiente. Ci sono Paesi, come il Cile o il Giappone, che hanno vinto questa scommessa, sviluppando altissime competenze amministrative e sociali nella riduzione del rischio, è una strada percorribile e non particolarmente costosa, ma impone un cambio di mentalità radicale nell’approccio alle emergenze.
Dobbiamo imparare a costruire i piani d’emergenza come piani politici nel senso più alto del termine, ovvero capaci di guidare una società verso un futuro sicuro e positivo. Dobbiamo imparare a considerare il rischio, i grandi rischi, come un elemento inevitabile delle nostre città, a sentirci coinvolti come cittadini nella gestione del rischio, a partecipare alla costruzione dei piani, ed a chiedere ai nostri sindaci come intendono prepararci ad un possibile evento. Dobbiamo tornare, anche in questo campo, a vivere come parte di un ecosistema naturale più vasto e più imprevedibile di quello che abbiamo supposto negli ultimi cinquant’anni.
*Mattia Bertin è dottore di Ricerca in Governo e Progettazione del Territorio al Politecnico di Milano, con esperienza nella gestione di disastri sul campo con la Protezione Civile. Si occupa di pianificazione dell’emergenza e collabora con la Provincia di Vicenza e diversi comuni in Italia nella realizzazione di piani partecipati