Assediata da 30 milioni di turisti l'anno ma abbandonata dagli abitanti. E lasciata nel degrado dalla politica. Così la città rinuncia al suo futuro (Foto di Federico Sutera)
Toccherà girare col telepass sulla testa o il permesso residenti appiccicato alla maglietta, se a Venezia va avanti questa storia del ticket d’ingresso, puntualmente tornata in auge dopo l’invasione di turisti a Ognissanti, folla peraltro prevedibile come una funzione matematica. Immaginarsi i vigili del Doge sguinzagliati a controllare, tra calli, campielli e sotoporteghi, che tu abbia versato il dazio, variabile a seconda di zona, ora e giorno dell’anno, che so, 50 cent alle sei di pomeriggio di un mercoledì di maggio a Cannaregio ma trenta euro in piazza San Marco al mezzodì di ferragosto, e i turisti a tentar d’azzeccare l’algoritmo per non sforare di cinque minuti o cento metri. Una maligna distopia totalitaria, ora che ai Tre Oci c’è giusto una mostra sull’Utopia di René Burri? Par di no.
«L’ho chiesto cento volte ma tutti nicchiano, me la fate fare la ztl pedonale, sì?». Visto che qui non girano auto, chissà se intende proprio ztl per i pedoni, il sindaco Luigi Brugnaro. «Certo! Ma devo avere l’autorità per decidere. Si tratta di segmentare i visitatori a seconda della tipologia, delle prenotazioni in albergo, delle aree in cui dormono e di quelle dove vogliono andare. Zonizzazione, si chiama, regolamentazione del piano del traffico e pianificazione della vita dei quartieri sulla base degli orari del giorno, dei giorni della settimana, dei mesi dell’anno...». Tutto ti aspetti, da uno che di mestiere fa l’imprenditore ed è stato eletto col centrodestra, tranne che una ricetta per la vita collettiva da Unione Sovietica epoca Breznev. «Ma è così in tutte le grandi città del mondo, anche a Milano si vive in Urss!».
Vero: nulla è ormai più trasversale della vocazione a mettere le braghe al mondo, alle città e alla vita dei singoli. Ma proprio questo, la vita delle persone e insieme l’anima di una città senza pari, è oggi in gioco. Sono passati cinquant’anni esatti dalla paurosa alluvione del ’66, quando un’acqua alta mai vista prima mise a nudo l’estrema fragilità dell’intero sistema lagunare. Servono soluzioni, e urgenti: al pauroso deficit di manutenzione ordinaria della città; all’esodo dei residenti dal centro storico, oggi cinquantacinquemila, un terzo di ottant’anni fa, in calo di 1.200 ogni anno; al crollo di tutte le attività che non sono turismo o a esso legate; alle navi città galleggianti che continuano a solcare il canale della Giudecca e a incombere su San Marco. Così, alla fine, anche i veneziani si sono mossi, e ormai è una marcia di protesta dopo l’altra.
[[ge:rep-locali:espresso:285241810]]Sabato 12 novembre eccoli, a calare sul municipio Ca’ Farsetti, i residenti di venessia.com con i trolley appresso: «A significare, irridenti, che abbiamo già le valigie pronte, se siamo diventati un disturbo e volete che ce ne andiamo, almeno ditecelo chiaro, non state a far ciance e promesse», attacca Matteo Secchi, presidente dell’associazione: contrario a card e tornelli, «roba da Disneyland, nonché antidemocratici», chiuderebbe piuttosto la città, quei cinque o sei giorni l’anno in cui servisse, per ragioni di ordine pubblico, come si fece al Redentore dell’89 per il concerto dei Pink Floyd. Sabato 22 ottobre erano in piazza le educatrici degli asili-nido e le insegnanti di scuola d’infanzia: «Un sistema fiore all’occhiello della città che il sindaco sta sfasciando, insieme al nostro lavoro e alle nostre vite», dice Donatella Pezzato, ai nidi veneziani da 38 anni. Modello, chissà, l’agenzia di lavoro interinale Umana di cui è fondatore e proprietario, Brugnaro «ha fatto diventare anche noi itineranti, ci sposta un giorno in un asilo un giorno in un altro. Fine dei privilegi, la chiama!».
A dare il la alle proteste sono stati però, ai primi di settembre, i giovani di Generazione 90: sciamando a centinaia con passeggini e carrelli della spesa da San Leonardo al congestionato mercato di Rialto, striscione R-esistiamo e volantini con la “lista della spesa”, siano gli indigeni a elencare cosa serve. Altra marcia a fine novembre, contro la mancanza di palestre che costringe gli studenti ad attraversare mezza città per l’ora di ginnastica. Ospitati dai Carmelitani Scalzi, da qualche mese s’incontrano, dibattono, tessono reti con altre associazioni: Giampietro Gagliardi, Marco Caberlotto, Sofia Cotrone, Andrea Held, Valeria Finocchi e Gabriele, Tiziano, Matteo e gli altri, fra i venti e i trent’anni, molti studenti, qualcuno in politica a sinistra come a destra.
Scettici per la canea estiva sui turisti cafoni («il panino sul vaporetto lo mangio anch’io, non è questo il degrado»), per nulla inclini all’autoassoluzione («i veneziani in primis hanno ignorato i problemi e ceduto al soldo facile»), avanzano richieste precise: «Sgravi fiscali per chi resta o viene ad abitarci, tassazione agevolata per chi affitta ai residenti e più pesante per chi loca ai turisti, blocco del cambio di destinazione d’uso dei negozi, guerra all’abuso dei portali di sharing stile Airbnb come già a Barcellona o Berlino. E panchine, cestini, bagni pubblici che ora si contano sulle dita di due mani e chiudono alle 8 di sera». Col sindaco sono in guerra sull’area del Tronchetto: il suo progetto di riqualificazione con bar, ristoranti, locali, in sé non male, «cancella però mille posti auto per i veneziani: l’opposto delle promesse elettorali, e una spinta in più all’esodo».
Facciamo il punto. Le dinamiche non sono affatto oscure, anzi. Come fai a continuare a risiedere a Venezia, dove tutto è strutturalmente più caro e gli affitti esorbitanti, con uno stipendio da impiegato o un lavoro da ventenne a mille euro? E per converso, se sei proprietario, perché continuare a risiedere a Venezia quando affittando i tuoi 50 metri quadri a un turista o cedendoli a un b&b, liberalizzati nel ’99 e più largamente nel 2013, incassi 5 o 6 mila euro e campi da ricco a Mestre? Per la residenza degli indigeni non c’è più né domanda né offerta. Ma su come la mano pubblica dovrebbe intervenire, se mai trovasse la forza e l’unità d’intenti per farlo, non trovi due che ti dicano la stessa cosa.
Durissimo è l’affondo di Francesco Bandarin, veneziano trapiantato a Parigi, vicedirettore generale delegato alla cultura all’Unesco, che l’altr’anno ha inviato tre ispettori ed entro dicembre deciderà se inserire Venezia nella lista nera dei siti inadempienti ai criteri per restare Patrimonio dell’umanità: «Qualunque cosa si pensi del Mose, sulla tutela fisico-ambientale grandi interventi sono stati fatti. Sul versante socioeconomico nessuno ha invece deciso nulla né tutelato alcunché: si è lasciata mano libera al mercato, le liberalizzazioni di Bersani hanno condannato a morte il centro storico, con le sue risorse infinite il turismo ha fagocitato ogni cosa deformando la città in un parco di divertimenti. Con 30 milioni di visitatori l’anno, due terzi dei quali neanche si ferma a dormire, e il turismo mondiale che raddoppierà in quindici anni, aspettiamo che Venezia venga invasa da sessanta milioni di persone? Toccherà al prefetto chiudere i ponti e a un sistema di polizia gestire la città?».
Speculare e rovesciata è la visione di David Landau, inglese trapiantato a Venezia, patron delle mostre “Le stanze del vetro”, a lungo tesoriere dell’associazione “Venice in peril”, nominato da Cacciari presidente dei musei cittadini e liquidato da Orsoni sindaco quando cominciò a mettere il naso nella gestione e nei conti. Altro che stato di polizia, la sua Venezia futura! «Come nel Settecento qua si veniva da tutta Europa perché le sue mirabili prostitute coprivano ogni gusto e voglia, così dovrebbe avvenire domani con la cultura: ci sono infiniti spazi e meravigliosi palazzi vuoti, ogni sera si potrebbero organizzare spettacoli di musica, poesia, teatro, danza, esordio di giovani delle scuole artistiche d’ogni parte del mondo. Il potenziale è enorme, ha solo bisogno di essere “well managed”». Anche Landau è per un taglio drastico al turismo one-day, tramite ticket per finanziare manutenzione straordinaria e ordinaria: come da vecchio studio di un economista allora agli esordi, tale Mario Draghi.
Ah, questi mordi-e-fuggi! Più dei politici, della corruzione, delle grandi navi che nessuno sa o vuole fermare, sembrano loro gli imputati perfetti: spendono poco, 19 euro al dì secondo uno studio di sei anni fa, costano di più in pulizia e smaltimento rifiuti, abbassano il livello: via, fuori, tornino quando se la potranno permettere, Venezia.
Non serve una botta di veterocomunismo (perché i poveri no? E chi l’ha detto siano loro gli incolti irrispettosi di luoghi e storia?) per opinare altrimenti. Basta girare un po’, fuori dai dieci giorni l’anno in cui la ressa è insostenibile con picchi di duecentomila visitatori, e constati che in un qualsiasi pomeriggio infrasettimanale persino piazza San Marco è mezza vuota, stacca persino il bengalese illegale che a cifre folli, anche quaranta euro a sacchetto, spaccia ai turisti granaglie per i piccioni. Se poi esci dai due chilometri quadrati battuti dalle folle, il resto, quattro quinti di Venezia, è semivuota. Sempre. Luoghi meravigliosi, dalla Madonna dell’Orto a San Pietro di Castello, il Ghetto, la Giudecca. Ai Giardini e all’Arsenale è la Biennale Architettura (fino al 27 novembre) ad attirare i visitatori, al Lido i dieci giorni della settembrina Biennale Cinema. «Si spandessero, andassero a scoprire qualcos’altro dalla Venezia da cartolina, neanche ti accorgeresti di loro, grande com’è il centro storico», taglia corto Massimo Cacciari: «Trenta milioni di turisti danno lavoro a cinquantamila persone, vogliamo mandarli a casa sull’altare della tranquillità degli amici dell’Unesco, uno degli enti più inutili al mondo?».
Stufo di parlare di Venezia, lui che ne è stato sindaco per tre mandati, Cacciari la riassume così.
Dal ’67 della Legge speciale i soldi per la manutenzione ordinaria c’erano: pulizia dei canali, sistema fognario, disinquinamento, rialzo delle zone basse. E anche per aiutare i privati a tenere a posto le loro case. Ma negli anni Novanta, complici centrodestra e centrosinistra a spartirsi sette miliardi, tutti i fondi sono finiti nel Mose, il sistema di paratie mobili contro l’acqua alta, già oggi mezzo arrugginito, che dovrebbe entrare in funzione nel 2018. «In più, la sua sola manutenzione costerà cinquanta milioni l’anno e a domanda su chi pagherà non viene data risposta alcuna. Inevitabile, quindi, un indebolimento strutturale di Venezia», sbotta mentre si prepara a una lectio sulla “Tempesta” di Shakespeare: «Ecco, Calibano, lui vorrei essere. Quando alla fine tutti lo abbandonano e rimane finalmente solo sulla sua isola. Deserta».