Le varie minoranze che continuano a credersi privilegiate, anche per raffinatezza, non hanno creduto al potere della rabbia. E non si sono rese conto che il trumpismo estetico è già qui, vincente, anche da noi 

Meno male che il trumpismo estetico e di pensiero già da anni trionfa anche da noi, per quanto inascoltato o ridicolizzato da menti eleganti; figuriamoci adesso. Quindi il trauma che per qualche giorno ha sconvolto il popolo di retaggio democratico, è stato subito sotterrato dal giubilo di chi senza saperlo, dal profondo di una Padania alla riscossa e ora estesa sino alla Sicilia, aveva preceduto le ideologie trumpiste, confermate poco tempo fa da un selfie con un festoso maschio populista milanese di 43 anni e un imbambolato razzista (e adesso presidente designato Usa) miliardario newyorchese di 70 anni.
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Del resto anche i superstiti di una pericolante ideologia democratica, un paio di giorni dopo i singhiozzi, pur continuando i commentatori più accreditati a sviscerare il fenomeno trumpismo senza badare al totale disinteresse dei trumpisti, hanno subito ripreso ad aggredirsi in puro stile trumpista per il meno epocale degli eventi, quello del Sì o del No, essendo il mondo italiano irrimediabilmente autoreferenziale, e per assurda presunzione, piccolo, sordo e cieco.
Analisi
Cosa insegna all’Europa la vittoria di Trump
15/11/2016

Abbandonando quindi al fato, ai giovani americani bianchi e neri che adesso, ma non prima, protestano, e agli umoristi, (vedi l’irresistibile hashtag “trumpyourcat” con poveri micini lordati dal celebre ciuffo trumpiano, horror che ha certo contribuito alla sua popolarità), a spicciarsela con un impensabile presidente praticamente del mondo, di cui è piaciuto non solo il programma mortuario soprattutto a chi ne morirà, ma anche il volto tinto di arancione e l’avere avuto, lui così poco fascinoso (a parte i soldi), tre mogli ex bellissime, tutte rifatte, con certe bocche uguali al divano rosso disegnato da Dalí.

Del resto è un’ovvietà ricordare che da decenni migliaia di belle italiane non rassegnate, cinquantenni e molto oltre, persino le dalemiane, accompagnano alle bocche artificiali non particolarmente trumpettiane lo sguardo immobile della disperazione. Emozione che manca, assieme a tutte le altre, alla nuova first lady Melania e alle tante Trump, ex mogli, e figlie e nuore, tutte uguali, contentissime di essere quello che sono, comunque belle secondo il canone showgirl, anche da noi il più apprezzato, e soprattutto ricchissime.
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Qui nasce anche per l’Italia il grande problema del mondo fashion, che per la prima volta ha in parte infranto l’usuale silenzio in politica, e ha preso una cantonata, con qualche grande stilista o industriale del ramo che si è dichiarato prima pro Hillary Clinton, e poi pure dispiaciuto per la sua sconfitta: e la potentissima direttrice di Vogue America, l’eternamente bella e sfingea Anna Wintour, che non solo ha messo in copertina del numero di ottobre una nera, l’attrice Lupita, ma in quella di novembre addirittura Michelle Obama, già apparsa in passato su altre due copertine della rivista di moda e mondanità più venerata al mondo; in più, raccogliendo personalmente fondi per la campagna dell’aspirante presidentessa democratica.
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Chi si aspettava, data la grossolanità del marito, che Melania si vestisse d’oro e gemme, è rimasto fregato: perché la Nuova Prima Signora è stata una modella, arrivata dalla Slovenia a Milano poi a New York, dove si è sistemata con quel facoltoso marito e le è rimasto un gusto alta moda oggi in vita soprattutto per la diffusione tra ricchi russi, kazaki e cinesi. E per esempio all’investitura a presidente del babbo del suo decenne figlio sbadigliante Barron, indossava un abito lungo bianco semplicissimo di Ralph Lauren, molto amato anche da noi, comprato in boutique senza il di solito indispensabile intervento dello stilista: il quale per tutta la campagna elettorale aveva abbigliato Hillary, incastrandola in tailleur da nonna briosa che hanno accentuato, punendola, la sua immagine establishment.

Comunque la buona e indifferente Melania, truccata e pettinata come tutte le ultraquarantenni anche italiane aggrappate al loro freddo fascino come a una professione, si è già vestita anche Gucci, anche Fendi, insomma come le pare; e come le coetanee italiane che se lo possono permettere, ma che se democratiche, tolgono l’etichetta, assicurando di abbigliarsi solo a 50 euro al pezzo.

Oltre ai tanti epocali Perché che gli esperti hanno scoperto dopo, e non prima della vittoria di Trump, ce ne sono anche alcuni fino ad ora trascurati perché terra-terra e quindi indecifrabili alle élite politico-culturali; eppure possibili anche da noi, dove alcuni similtrumpettisti raccolgono sempre più adepti, nello sconcerto dei più raffinati pensatori sempre in tivù o sul web, e mai, come ha scritto su Repubblica Paolo Rumiz, in tram. Le varie minoranze che si credevano e continuano a credersi privilegiate anche per raffinatezza, non hanno creduto al potere della rabbia: non solo nata dalla paura e dalla crisi economica e dalla rivoluzione tecnologica, ma anche dal formarsi di un nuovo sogno rivoluzionario, rappresentato anche per noi dal nuovo presidente americano.
Infatti.

Trump non paga le tasse come tutti vorrebbero poter fare; Trump non è solo ricco, ma esibisce la sua ricchezza più dello stesso nostro finto ricco Briatore; Trump non si vergogna di avere i rubinetti similoro nei bagni del suo enorme aereo privato; Trump ha a New York il più orribile immenso appartamento che incubo umano possa realizzare e che pure aleggia nel desiderante immaginario popolare, una finta Versailles ma tutta d’oro, marmo e cristalli e colonne corinzio-barocche, finti Renoir, finte poltrone Luigi XIV; fontane zampillanti nei tanti saloni, persino un pianoforte a coda bianco tipo Liberace.

Trump risdogana (da noi già fatto) gli anziani boriosi che se ne stavano nascosti nei loro investimenti fruttuosi; libera la pancia senza la corazza del doppiopetto, le cravatte lucide lunghe oltre l’addome, il berretto da baseball a teatro; rende eroico chi non ha mai letto un libro, pugnala al cuore i vegani e i pazzi per il sushi, fa apparire squallide le collezioni sofisticate di arte concettuale, inutili gli autentici mobili Bauhaus. E già furoreggia il mercato del Fasto per tutti, a prezzi scontati: offerte da “Sogno”‚ o da “Favola” o di “Classe” o da “Mille e una Notte” e sempre Esclusive; ogni cosa Luxury, dallo “streetwear” all’“influencer strategy”.

Abbiamo avuto la Milano da bere negli anni Ottanta, quando le uniche donne ammesse alle ovazioni erano le top model, super belle giganti mai viste prima e infatti velocemente accasate con miliardari o potenti di ogni genere; poi si sa che anche da noi mezza Italia ha più volte votato un riccone in età anche lui tinto di arancione e con drammi piliferi meno disinvolti: che però rispetto alla paura che suscita il tanto più robusto e minaccioso Donald, con quella piccola bocca che i nostri nonni avrebbero definito, pardon, “a culo di gallina”, oggi ci appare come un buon uomo di cui ci si dimenticherà presto, comprese le sue immense e brutte proprietà da vacanza in stile Palm Beach, anche se ci ha assuefatto alle leggi ad personam e al Grande Fratello.

Però la ricchezza ostentata e quindi improvvisamente raggiunta, a differenza di quella solida, antica e incrollabile vissuta nell’ombra, l’abbiamo sempre presa in giro, e non solo quegli italiani che privi di elicottero privato e di isole personali nel Pacifico, si sentivano protetti e dalla parte giusta perché in possesso di tutto Stendhal e della lampada Arco di Castiglioni.

Nel ’46 si rideva con l’Anna Magnani che faceva la ricca borsanerista in “Abbasso la ricchezza”, nel 2012, “Reality” di Garrone volutamente ci rattristò con il matrimonio camorrista e gli sposi in carrozza d’oro che era la pura verità, come si è visto poi con i funerali e i matrimoni Casamonica; con “La grande bellezza” Sorrentino stigmatizzò la Roma della ricchezza fatua e disperata, il settimanale Chi incantò o offese il suo vasto pubblico, con la fotografia di un Natale in casa Berlusconi, in cui giganteggiava una tavola grande come piazza San Pietro, ricoperta di una immensa tovaglia di broccato rosso e vasto vasellame tipo oro. Attualmente su Sky Atlantic Sorrentino per la serie “The young Pope” mostra lussuose feste in opulenti appartamenti romani, con ospiti imbruttiti, invecchiati, spaesati dalla ricchezza: in contrasto si pensa con l’invenzione di un Vaticano di gloriosa sobrietà carica di arte e di vuoti.

Insomma con tutto lo spavento che dilaga nel mondo per la nuova America di Trump, probabilmente anche simulato in certi ambienti troppo eleganti per rallegrarsene in pubblico, e tutti i mea culpa di chi riteneva questo diluvio impossibile, e finalmente la scoperta sorprendente che esistono, come ha ricordato Ezio Mauro sull’Espresso, i “forgotten men” e pure le “forgotten women”, quelle che non hanno alcuna fiducia nel potere alle donne perché una volta lì non è detto che si occupino delle altre donne. Il 53% delle donne americane bianche ha votato per Trump: perché promette il cambiamento e non importa quale: la stessa bugia che scorre da noi.