Di questa infezione non si parla quasi più.  Ma senza informazione, i farmaci non bastano

Un successo. Così può essere considerata la battaglia contro l’infezione da Hiv, una delle storie più felici della medicina contemporanea: nel giro di pochi decenni si è passati dal non conoscere il virus che la causava ad avere farmaci in grado di azzerare la malattia, e anche la sua trasmissione. Al centro di questa vicenda ci sono i pazienti, quelli famosi come Freddy Mercury, la cui morte impose l’acronimo Aids in tutto il mondo, e quelli meno noti, organizzati in associazioni e gruppi capaci di far sentire la loro voce ai congressi scientifici, di parlare con politici e manager delle case farmaceutiche.

È appena il 1983 e un gruppetto di persone con Aids si riunisce in una stanza di un albergo della capitale del Colorado in cui si svolge un congresso scientifico ed elabora un documento contenente alcuni principi basilari. Come: “non vogliamo essere considerati vittime”», ricostruisce Giulio Maria Corbelli, vicepresidente di Plus onlus, nel libro della Fondazione Smith Kline “Hiv/Aids: storia, cura, prevenzione” (FrancoAngeli). In quella voglia di riscatto è contenuto il percorso che porterà la community delle persone con Hiv e Aids a dare un contributo fattivo nella ricerca scientifica sulla malattia così come nelle policy messe in campo per fermare la diffusione dell’infezione.
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Negli anni Ottanta del virus si sa davvero poco e della malattia si parla solo nei consessi scientifici; negli anni Novanta i decessi delle star internazionali - Anthony Perkins, Isaac Asimov, Bruce Chatwin, Michel Foucault, Rudolf Nureyev, Arthur Ashe per fare qualche nome - fanno notizia; nei Duemila di Aids non si muore più (almeno nei paesi occidentali), anche se i sieropositivi devono affrontare terapie molto pesanti; nell’ultimo decennio i farmaci diventano sempre più efficaci e meno tossici e, se li prendono, le persone Hiv positive possono vivere una vita piena e dignitosa. Risultato: dell’infezione non si parla più, e si pensa che il problema sia risolto. Niente di più sbagliato, in Italia come nel mondo. Da noi il numero delle nuove diagnosi, infatti, non cala e ogni anno circa 4mila persone scoprono di essersi infettate; nel mondo si registrano 2 milioni di nuovi casi all’anno e si stima che circa il 40 per cento dei sieropositivi non sa di esserlo, e quindi continua a diffondere il virus anche inconsapevolmente.

«È vero che c’è stata molta informazione sulla malattia negli scorsi decenni ma ha interessato prevalentemente i paesi occidentali e si è rivolta alla popolazione generale», commenta Stefano Vella del Centro Salute Globale - Istituto Superiore di Sanità, uno dei massimi esperti mondiali di questa malattia. «Oggi per ottenere dei risultati dobbiamo raggiungere le cosiddette popolazioni chiave, quelle che diffondono il virus». E bisogna farlo in tutto il mondo. Ma comunicare con i gay in alcune zone dell’Africa o con chi fa uso di droghe in alcuni paesi dell’est Europa è davvero difficile: si tratta di persone che rischiano il carcere o altre punizioni, emarginate socialmente. Così l’infezione continua a perpetuarsi e, grazie a globalizzazione e migrazioni, ritorna anche da noi.

«L’Aids non è affatto sconfitto. Pensarlo è un errore di prospettiva tragico: la salute delle persone dei paesi in via di sviluppo è anche la nostra salute. Ma soprattutto non possiamo pensare di vincere solo a suon di pasticche, ci vuole un vaccino e la cura», sottolinea ancora Vella. Sulla strada del vaccino si erano incamminati in molti, ma quasi tutti l’hanno abbandonata.

Ora però uno dei meccanismi con cui l’Hiv eludeva il sistema di immunizzazione è stato scoperto e questo ha dato nuova linfa all’idea di un presidio di prevenzione. Accanto a questa strategia si sta facendo strada quella che mette insieme i farmaci antiretrovirali - quelli che consentono ai sieropositivi di avere una aspettativa di vita simile a quella di chi non ha l’infezione - ai nuovi farmaci immuno-oncologici che stanno ottenendo risultati molto buoni in alcuni tipi di tumore.

Più ancora della terapia non c’è dubbio però che potrebbe la prevenzione. I rapporti sessuali non protetti rimangono la principale causa di infezione, quelli fra maschi ma anche quelli eterosessuali.

Ma ormai la percezione del rischio è molto diminuita e la maggioranza di quanti scoprono di essere
sieropositivi lo fa quando la malattia è già in fase avanzata, quando il virus è stato trasmesso anche ad altri.

Come fare arrivare al cuore del problema? «In Danimarca, un paese piccolo e dunque dall’epidemia contenuta, quando hanno visto che la principale via di trasmissione del virus era il rapporto sessuale tra maschi, hanno immaginato un intervento specifico per quella popolazione», spiega Corbelli. «In Francia da gennaio, e in Norvegia da poche settimane, hanno deciso di distribuire gratuitamente la terapia preventiva a chi ne ha bisogno. Gli effetti si vedranno tra un po’. Ci vorranno dei mesi, ma certamente le infezioni diminuiranno».

Far cooperare i diversi tasselli della società, proprio come è stato all’inizio della storia dell’Aids quando dalla coesione fra medici, pazienti, istituzioni e case farmaceutiche nacquero le prime dichiarazioni e campagne, è quindi ancora la strada da percorrere. Ci stanno riuscendo a San Francisco, dove negli anni Ottanta e Novanta ci fu un epidemia esplosiva di Aids. La città ha deciso di aderire all’iniziativa Fast-Track Cities il cui obiettivo è raggiungere entro il 2020 gli obiettivi 90 90 90: il 90 per cento delle persone con Hiv diagnosticate, il 90 per cento di queste in terapia e il 90 per cento di quelle in terapia con una riduzione significativa della carica virale. Come? Trattando con le terapie le categorie a rischio, dando informazioni alle comunità di persone più coinvolte, sostenendo l’uso del preservativo, con un approccio integrato per superare lo stigma e la discriminazione che ancora tocca le persone con Hiv.

E in Italia? Le istituzioni sono immobili, fossilizzate sugli stessi messaggi da anni, ma le associazioni provano a realizzare progetti nuovi. «Come Plus onlus abbiamo aperto un anno fa a Bologna il primo locale gay gestito dalle associazioni di pazienti nel quale, in tutta tranquillità, è possibile fare il test per Hiv e Hcv in modo rapido e avere i risultati in 20 minuti», spiega Corbelli. «È stato un lavoro di anni, abbiamo messo insieme la Asl - che mette il personale infermieristico specializzato - e il Comune di Bologna - che mette i locali. Noi abbiamo fatto una campagna di fundraising. È una realtà unica in Italia, a Roma ogni tanto il circolo Mario Mieli fa questa cosa appoggiandosi all’Ospedale San Giovanni ma è un’attività sporadica». Buone pratiche che stentano a decollare a livello nazionale, dove ancora ci si ricorda delle campagne di informazione di Lupo Alberto. Nel frattempo sono passati 25 anni, la scienza è andata avanti, i pazienti hanno ottenuto molto, ma la politica appare ferma.