Decine di innocenti torturati e uccisi dalla polizia di al-Sisi. Il caso di Giulio in mezzo a tanti altri simili, con lo stesso modus operandi. Dalla presunta banda di sequestratori crivellata di colpi ai venditori giustiziati in piazza. E ora i media pro regime celebrano il ritorno dell'ambasciatore italiano al Cairo
Un anno di sangue per mano della polizia. Violenze, sparizioni e uccisioni compiute da chi indossa la divisa. E’ il 2016 egiziano, quello che si è portato via anche Giulio Regeni, il ricercatore italiano torturato e barbaramente assassinato undici mesi fa al Cairo. Di Giulio si è parlato tanto, senza mai giungere alla verità. Undici mesi di versioni contrastanti, goffi tentativi di depistaggio e fragili bugie di apparato. Tanti castelli di carte venuti giù al primo soffio dei fatti.
Intanto i media egiziani accolgono con favore l’annuncio del
ritorno al Cairo dell’ambasciatore italiano. Ancora una volta il tempo sta per trionfare sulla verità. La ripresa dei rapporti diplomatici tra i due paesi è il ritorno alla normalità tanto voluto e atteso dal regime egiziano. Giulio Regeni resterà solo un nome italiano in mezzo a tanti nomi egiziani.
Giulio infatti non è l’unica vittima.
Di Regeni egiziani ce ne sono centinaia. Mediamente spariscono tre persone al giorno. Di queste tante non tornano più a casa. Alcune vengono giustiziate in strada. Davanti a un posto di blocco o anche in mezzo a un mercato. Uno dei casi eclatanti è legato proprio a Giulio. La presunta banda di sequestratori, indicata come responsabile della tortura e dell’uccisione del ricercatore italiano, è stata crivellata di colpi alle sei del mattino del 24 marzo.
Pochi giorni prima dell’incontro a Roma tra gli inquirenti italiani e quelli egiziani. Doveva essere la soluzione definitiva del caso. La ricostruzione non ha retto nemmeno ventiquattro ore. Pur di imbavagliare la verità sono stati arrestati anche i familiari degli uccisi. Ma non è stato sufficiente: ora è chiaro a tutti che quei cinque cittadini egiziani sono stati sacrificati per chiudere un caso che stava diventando troppo scomodo per il regime. Le indagini sono in corso, ma difficilmente verrà indicato un responsabile.
Il 4 gennaio, a Mansura, una località che dista un’ora in auto dal Cairo,
Magdy Gad Lotfy è stato freddato dagli agenti mentre tornava a casa dal lavoro. La motivazione fornita alla famiglia è che la vittima fosse tra i sospettati. Gli Interni hanno invece parlato di un assalto a un posto di blocco. Un posto di blocco che non è mai esistito, come hanno confermato decine di persone. Caso chiuso.
A volte per essere uccisi dalla polizia non è nemmeno necessario essere tra i possibili sospettati. E’ sufficiente pretendere un diritto. E’ il caso di
Mohamed Adel, un autista freddato con un colpo di pistola alla testa da un agente il 18 febbraio al Cairo. Aveva chiesto di essere pagato per un servizio offerto. Il sottosegretario del ministro degli Interni, Abu Bakr Abdel Karim, l’ha definita legittima difesa. In questo caso la giustizia ha fatto la sua parte: l’agente è stato condannato a 25 anni di reclusione.
Un episodio molto simile si è verificato due mesi dopo, il 21 aprile, sempre al Cairo. Questa volta per una tazzina di tè. Il poliziotto si è servito e non ha voluto pagare il dovuto. Ha estratto la pistola, ucciso il venditore e ferito altre due persone. In pieno giorno, in mezzo alla piazza.
L’8 giugno è toccato a
Kamel Al Mahdy, un venditore di pesce. La sua colpa è di aver avuto una discussione con un collega. L’agente intervenuto sul posto, che avrebbe dovuto riportare la calma, ha massacrato di calci e pugni il venditore. Non ha fatto in tempo ad arrivare in ospedale. La causa ufficiale del decesso fornita dagli Interni è arresto cardiaco. L’intervento della polizia non è risultato da nessuna parte.
Il mese dopo la storia si è ripetuta con un altro venditore.
Mohamed Ahmed Khalil è stato arrestato il 23 luglio in un mercato a Imbabah, zona nord del Cairo. Torturato, per mano di quattro agenti, finché non ha più resistito. Il suo corpo è stato ripescato nel Nilo. L’accusa, post mortem, è di essere uno spacciatore. Nessuna indagine per i quattro agenti.
Altri tre poliziotti si sono resi responsabili invece della tortura e dell’uccisione di un operaio che aveva tentato di ricattare un turista saudita. Il suo corpo è stato ritrovato davanti a un ospedale. I segni delle torture sono il messaggio del modus operandi che viene seguito alla lettera: arresto non autorizzato, tortura fino alla morte e abbandono del corpo.
Il 31 luglio una pattuglia della polizia ha tentato di effettuare un arresto senza alcun mandato da parte della procura. I residenti della zona si sono quindi rifiutati di consegnare il ricercato. I tre agenti hanno risposto sparando sui presenti, uccidendo una persona e ferendone altre. I responsabili sono rimasti in cella per quattro giorni.
Durante il mese di agosto si è parlato invece molto del caso di
Ahmed Medhat, un giovane che secondo la versione ufficiale della polizia si è gettato dal secondo piano di una casa per prostitute nel tentativo di fuggire a un controllo. Secondo il padre, invece, il figlio era sparito diversi giorni prima della morte. Il suo corpo all’obitorio portava i segni delle torture, scariche elettriche comprese. Il tribunale ha poi effettivamente smentito il legame tra Ahmed e la casa di prostituzione, senza però accusare la polizia dell’omicidio.
Il mese scorso di nuovo una discussione tra un agente e un facchino è finita con la morte di quest’ultimo. Si chiamava
Magdy Makin. Dopo il diverbio è stato portato al commissariato. Il giorno seguente i familiari hanno ricevuto la notizia della sua morte. La causa: calo di tensione. Sul corpo tutte le tracce delle torture subite, confermate anche dall’autopsia. Gli agenti coinvolti sono rimasti in cella quattro giorni. A questo elenco, si aggiunge quello delle sparizioni e delle torture. Centinaia di casi di cui non è nessuno è mai responsabile.