Un dossier di Amnesty International ricostruisce decine di testimonianze di ragazzi, anche minorenni, detenuti illegamente e sottoposti alle peggiori torture. Ecco le loro storie e le richieste dell'organizzazione all'Occidente perché isoli il dittatore

«Pensi di avere un prezzo? Noi possiamo ucciderti, avvolgerti in una coperta e buttarti in un bidone della spazzatura qualsiasi e nessuno verrà mai a chiedere di te». Così si è rivolto uno dei boia della polizia egiziana a un innocente che è stato torturato per oltre quattro mesi. La sua colpa era di portare lo stesso nome di battesimo di un ricercato. Con lui erano stati arrestati anche il padre e il fratello, solo per obbligarlo a confessare crimini mai commessi e che gli avrebbero portato una condanna a vita.

E’ una delle tante orribili storie raccolte da Amnesty International nel rapporto “Egitto: ‘ufficialmente tu non esisti’, scomparsi e torturati in nome della lotta al terrorismo”. Il dossier include 17 testimonianze dettagliate di alcune delle centinaia di vittime di torture e sparizioni forzate nel 2015 e 2016, tra cui ragazzi di 14 anni. Per l’occasione è stato organizzato anche un flash mob per ricordare Giulio Regeni e le altre vittime di queste terribili pratiche in atto nel paese. L’appuntamento è oggi alle 10.30, in piazza Pantheon a Roma. L’iniziativa raccoglierà numerose attiviste e attivisti dell’organizzazione che si raduneranno davanti al Pantheon a torso nudo e con bende e cappucci neri a rappresentare alcuni dei casi documentati nel rapporto.

I TANTI REGENI D'EGITTO
Difficile non pensare a Giulio leggendo quel dettaglio della coperta. Perché si è sempre parlato di una coperta, di quelle fornite ai militari, trovata vicino al corpo del ricercatore italiano. Buttato, come immondizia, sul ciglio della trafficata strada che collega il Cairo ad Alessandria, quasi sei mesi fa. Una ennesima conferma del coinvolgimento degli apparati egiziani nel caso del giovane friulano. Chi conosce bene l’Egitto di al Sisi non ha mai avuto dubbi. Ora lo dicono anche i numeri riportati nell’ultimo rapporto stilato da Amnesty. 
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Persino le cifre ufficiali del governo sono spaventose: tra il 2013, anno del golpe militare, e il 2014 le forze di sicurezza hanno arrestato quasi 22mila persone. Nel 2015, secondo il ministero dell'Interno, sono finite in manette quasi 12mila ulteriori sospetti. Tra loro studenti, accademici, ingegneri, medici professionisti. Altre centinaia sono detenute in attesa di esecuzione, tra cui l'ex presidente Mohamed Morsi, i suoi sostenitori e i leader dei Fratelli musulmani. In totale quindi ufficialmente i prigionieri politici sono 34mila. Alcuni gruppi per i diritti stimano però che almeno 60mila persone sono state arrestate per motivi politici dal luglio 2013. Così tanti che è in corso la realizzazione di dieci nuovi penitenziari.

Spesso però chi viene arrestato non finisce in carcere. Viene bendato e portato via verso destinazione ignota. Di lui non viene lasciata nessuna traccia. Nessuna documentazioni che indichi lo stato di detenzione. Sono le sparizioni forzate, quelle che stanno caratterizzando questo buio periodo del Cairo. A riassumere la sofferenza dei familiari ci sono due testimonianze riportate nella pubblicazione. La prima è del padre di Karim Abd el-Moez, scomparso per quattro mesi, torturato e costretto a confessare di appartenere allo Stato islamico. Ha detto: «Tutto quello che volevo sapere era se mio figlio era vivo o morto, l’incertezza mi stava devastando psicologicamente».

La seconda è invece di una madre a cui hanno strappato il proprio figlio: «Non mi rivolgo a lei come agente di polizia, ma come padre, e le chiedo di provare a immaginare il dolore di una madre che non riesce a trovare il proprio figlio». Sono le parole della mamma di Abd el-Rahman Osama a un agente di polizia che aveva ripetutamente negato che suo figlio fosse in custodia. Quel figlio invece ce l’avevano loro. Lo hanno arrestato, torturato e tenuto in prigione per undici mesi. Ora rischia di essere condannato a quindici anni di carcere. Ha 17 anni ed è accusato di appartenenza ai Fratelli musulmani, partecipazione a proteste non autorizzate e possesso di armi.

Amnesty International non è in grado di dire con precisione quante persone sono state sottoposte a sparizione forzata dalle autorità egiziane dall'inizio del 2015 o specificare il numero attuale. Per loro natura, i casi di sparizioni forzate sono particolarmente difficili da identificare e documentare a causa del segreto d'ufficio che li circonda e le paure di alcune famiglie che potrebbero inavvertitamente mettere i detenuti in maggior pericolo segnalando la loro sparizione. Tuttavia, attraverso la documentazione e i dati forniti da diverse Ong e gruppi dei diritti egiziani, è evidente che almeno diverse centinaia di egiziani siano scomparsi dall'inizio del 2015 con una media di tre o quattro persone ogni giorno.

La Commissione egiziana per i diritti e le libertà ha riferito lo scorso aprile di aver documentato 544 casi di sparizione forzata per un periodo di otto mesi, tra l'agosto 2015 e il marzo 2016, per una media di due o tre persone al giorno. Il Coordinamento egiziano per i diritti e le libertà ha riportato invece nel gennaio 2016 di aver documentato 1.023 casi di sparizioni forzate durante i primi otto mesi del 2015, e un totale di 1.840 casi sono stati segnalati in tutto il 2015. Una media di 4-5 persone ogni giorno.

BLITZ PER PORTARE VIA RAGAZZINI 

«Siamo un’autorità sovrana, non abbiamo bisogno di mandati per arrestare le persone». Con questa arroganza i militari della Sicurezza nazionale egiziana sfondano porte e mettono sottosopra appartamenti per portare via i sospettati. Anche quando questi hanno a malapena 14 anni. Lo fanno in piena notte o la mattina prima dell’alba. Si presentano con un convoglio di veicoli blindati accompagnati da un pulmino bianco anonimo e senza targa, condotto dagli uomini della Sicurezza nazionale e utilizzato per trasferire i detenuti che poi risulteranno scomparsi. Durante l’intervento, come hanno raccontato diversi testimoni ad Amnesty, si dividono in tre gruppi: uno in strada per scoraggiare curiosi, arrestando chiunque si spinga troppo avanti, uno agli ingressi dell’immobile e il terzo, tra cui i funzionari della Sicurezza nazionale, all’appartamento. Una volta all'interno, ammanettano e bendano il sospettato, perquisiscono tutte le stanze e portano via cellulari, computer e spesso anche il denaro che trovano. Il tutto senza presentare uno straccio di documentazione. Chi si ribella viene minacciato di essere arrestato o aggredito.

Già sul posto controllano la rubrica dei telefoni e i messaggi scambiati. Basta un’immagine o un contatto sospetto per essere incriminati. In particolare se è legata all’ex presidente Morsi e ai Fratelli musulmani. E’ successo a Mazen Abdallah, studente di 14 anni, portato via e torturato per settimane a causa di un messaggio ricevuto da alcuni suoi amici. A raccontare la sua storia ad Amnesty è la madre. La notte del 30 settembre 2015 è stata svegliata da violenti colpi alla porta. Erano le 3 e a casa sua si erano presentati trenta militari armati fino ai denti. Cercavano suo figlio perché dovevano fargli delle domande. Non ha potuto quindi fare altro che accompagnarli nella sua stanza, dove dormiva senza immaginare quale incubo lo avrebbe svegliato. Si sono messi a controllare il suo cellulare e quando hanno trovato alcuni riferimenti a proteste contro il regime hanno comunicato alla madre che lo avrebbero portato via per qualche ora. Senza dirle dove. Per dieci giorni Mazen ha subito ogni forma di tortura, compresi stupri e scosse elettriche. Lo hanno tenuto sempre bendato e ammanettato. A volte è rimasto appeso per ore al muro. Prima di finire davanti al giudice è stata falsificata la sua data di arresto. Secondo le carte in tribunale Mazen è stato fermato solo il giorno prima dell’udienza, quindi nel pieno rispetto della legge. In realtà erano passati dieci giorni.

L’INFERNO NEL PALAZZO DEGLI INTERNI

Chi deve sparire forzatamente per più di quattro giorni non viene portato nelle stazioni di polizia. Perché queste sono considerate luoghi di detenzione ufficiale e quindi soggette al controllo da parte della magistratura. I luoghi preferiti dei boia sono invece gli uffici della Sicurezza nazionale e i campi di addestramento e alloggio della polizia antisommossa. Qui nessun giudice o pubblico ministero ha la facoltà di ispezionare gli uffici e, in quasi tutti i casi documentati da Amnesty International, le famiglie e gli avvocati non sono stati in grado di conoscere la sorte dei propri familiari mentre erano tenuti in isolamento in questi luoghi.

Al Cairo la destinazione più temuta da ogni sospettato è l’ufficio della Sicurezza nazionale a Lazoughly, situato nella sede del ministero degli Interni. A pochi metri da piazza Tahrir, simbolo della liberazione. Chiunque sia passato da qui ha raccontato le violenze subite, dall’uso di scariche elettriche alla sospensione per gli arti al soffitto per lunghe ore o addirittura giorni. Non è un caso che i detenuti l’abbiano soprannominato l’inferno del quarto piano. Un luogo che è più volte venuto fuori nel caso Regeni.

L’elenco delle torture e dei maltrattamenti cui vengono costretti i detenuti che finiscono in queste celle superano ogni manuale dell’orrore. Le testimonianze raccolte nell’ultimo rapporto sono raccapriccianti. Rappresentano a parole quel male che la madre di Giulio ha visto sul volto di suo figlio. Pestaggi, sospensioni per gli arti al soffitto o ad una porta, mentre sono ammanettati e bendati per lunghi periodi, scosse elettriche al viso, al corpo, ai denti, alle labbra, ai genitali e ad altre aree sensibili per lo più con taser e in pochissimi casi con cavi.

Un altro metodo usato in alcuni casi è noto come la "griglia" - in cui le mani e le gambe della vittima sono fissate un’asta di legno in equilibrio tra due sedie e vengono sospesi nel vuoto e fatti ruotare. I detenuti hanno anche riferito che sono stati ammanettati da un polso ad un altro detenuto e con un alto muro tra l’uno e l'altro, impedendo ai detenuti sia di dormire sia causando lesioni ai loro polsi, braccia e spalle.

Ex detenuti, famiglie e avvocati hanno detto ad Amnesty International che di solito sono stati torturati durante gli interrogatori, in genere durante le prime due settimane della loro detenzione in isolamento. Gli interrogatori andavano da una fino a sei o sette ore. I detenuti restano bendati e ammanettati per tutto il tempo della loro permanenza. A volte anche mesi.

LE TESTINOMIANZE

Amnesty ha raccolto nel rapporto 17 testimonianze di casi di sparizioni forzate e di tortura. Riflettono quelli che sono migliaia di episodi avvenuti negli ultimi tre anni in Egitto. «Sono stato interrogato due volte al giorno e mi hanno fatto sempre le stesse domande. Sono stato minacciato di violenza sessuale e di essere ucciso. Gli agenti mi hanno minacciato con scariche elettriche e hanno utilizzato il taser vicino alle mie orecchie per minacciarmi durante l'interrogatorio, sono stato anche minacciato di venire accusato di reati che si sarebbero tradotti in una condanna all'ergastolo», ha raccontato Nour Khalil, l’attivista liberale arrestato insieme al fratello e al padre.

Karim Abdel Moez ha invece raccontato all’amico Mohamed Magdy, che gli ha fatto visita in prigione, che durante i continui interrogatori nel corso dei suoi oltre cento giorni di detenzione gli agenti lo hanno ammanettato e bendato, picchiato con bastoni e utilizzato scariche elettriche sia con taser che con cavi, compreso sui genitali, per costringerlo a "confessare" che aveva in mente di unirsi allo Stato islamico, e di implicare anche altre persone. A lui e agli altri detenuti non è stato permesso di parlare l'uno con l'altro sotto la minaccia di percosse da parte delle guardie o di sospensione in posizioni di stress.

CONFESSIONI FABBRICATE

Nelle testimonianze raccolte da Amnesty diversi detenuti hanno raccontato di essere stati non solo costretti a confessare crimini mai commessi, di cui alcuni anche molto gravi, ma anche che sono stati fotografati dagli stessi agenti davanti ad armi e munizioni. Tutto fabbricato ad arte per alimentare una campagna mediatica e incolpare gli innocenti. E’ il caso del 15enne Ebada Ahmed Gomaa che dopo essere stato arrestato ha raccontato alla sua famiglia di «non aver visto il sole per cinquanta giorni» e che gli ufficiali lo hanno fotografato due volte con le armi, prima presso la loro vecchia casa di famiglia e poi alla stazione di polizia, e lo hanno portato in un veicolo della Sicurezza nazionale a indicare gli indirizzi dei suoi contatti di telefonia mobile e delle persone che aveva coinvolto nella sua "confessione" forzata. Le fotografie di Ebada sono state successivamente pubblicate sui media, dipingendolo come un "terrorista" che fabbricava armi.

D’altronde non c’è traccia di un equo processo. Giudici e pubblici ministeri hanno sempre finto di non vedere le tracce delle torture che gli imputati mostravano. Anzi, in un caso documentato nel rapporto è stato lo stesso pubblico ministero a minacciare il sospetto quando ha tentato di ritrattare la confessione. «Sembra che tu voglia tornare alle scosse elettriche», ha ammonito un procuratore capo della sicurezza nazionale rivolgendosi a uno studente di 14 anni, Aser Mohamed.

Alle dichiarazioni del governo egiziano ormai siamo abituati anche noi con il caso Regeni. Non c’è quindi da stupirsi nel leggere le affermazioni del ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar del marzo scorso: «In Egitto non esistono sparizioni forzate» negando fermamente che i detenuti siano tenuti in segregazione e non soggetti a controlli giurisdizionali o trattenuti in violazione della legislazione egiziana. Ha inoltre ribadito che «il ministero degli Interni e le forze dell’ordine operano nel quadro della legislazione egiziana senza violarne le disposizioni» e ha dichiarato che «l’utilizzo, da parte dei gruppi impegnati nella difesa dei diritti umani, del termine “sparizione forzata” è stato istigato dai leader esiliati della Fratellanza musulmana, i quali desiderano frapporsi agli sforzi profusi dal ministero degli Interni alla lotta al terrorismo e alla presenza della Fratellanza musulmana stessa, un gruppo di “terroristi”».

LE RICHIESTE DI AMNESTY

«Tutti gli Stati che intrattengono relazioni diplomatiche, commerciali o di altra natura con l'Egitto dovrebbero prendere provvedimenti per manifestare al governo egiziano la propria preoccupazione riguardo il continuo impiego di sparizioni forzate, tortura e altri maltrattamenti, processi iniqui e altre gravi violazioni dei diritti umani e dovrebbero usare la propria influenza per fare pressione e ottenere, così, la fine immediata di queste violazioni. In particolare, tali Stati dovrebbero: sollecitare l’Egitto a porre fine alle sparizioni forzate e fermare i trasferimenti di armi ed equipaggiamenti che facilitano le violazioni dei diritti umani».