Prima solo depistaggi. Poi indagini lacunose. Fatte per non portare ?a nulla. Ecco perché la collaborazione di chi sa qualcosa adesso è preziosa

Si arriverà mai a conoscere la verità sulla morte di Giulio Regeni? La domanda viene rivolta spesso al procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che coordina le indagini, per la parte che compete agli italiani, sull’uccisione del giovane ricercatore italiano trovato morto alla periferia del Cairo il 3 febbraio scorso, dopo essere stato torturato. «Non lo so. Deve essere chiaro che le indagini sono in capo all’autorità e alla polizia giudiziaria egiziane. Noi collaboriamo nel limite del possibile», ha risposto Pignatone durante un incontro pubblico. Per poi aggiungere: «Noi collaboriamo, ma nelle forme possibili tra due Stati tra i quali non c’è neanche un trattato».

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Gli investigatori egiziani hanno prodotto in questi mesi solo depistaggi, sventati dagli inquirenti italiani. In Egitto hanno tentato di infangare l’immagine di Giulio Regeni e quando non ci sono riusciti hanno scaricato la responsabilità del rapimento e della morte su una banda di cinque rapinatori, tutti assassinati a sangue freddo.

Ma anche questa mossa non è riuscita agli egiziani. La responsabilità di apparati legati al governo di al Sisi è sempre più evidente e forse per questo motivo le indagini sono andate a rilento, gli investigatori hanno girato a vuoto e nonostante i solleciti italiani di accelerare negli accertamenti e scambiare le informazioni, poco o nulla è stato ottenuto. Anche il briefing a Roma fra gli investigatori italiani ed egiziani non ha portato a nulla di concreto. La missione si è trasformata in una vacanza per i poliziotti del Cairo, che la sera si sono goduti i locali della Capitale.

La copertina dell'Espresso
Per cercare di comprendere meglio cosa è successo il giorno in cui è scomparso Giulio, i magistrati italiani hanno chiesto agli egiziani di avere una serie di documenti come tabulati telefonici e video delle telecamere di sorveglianza pubblica, in particolare della metropolitana e di alcuni negozi. I video non esistono, sembrano essere stati tutti cancellati. Mancano ancora i traffici delle celle telefoniche considerate utili per lo sviluppo delle indagini, così come mancano i tabulati delle utenze egiziane e alcuni verbali di interrogatorio. Dal Cairo è arrivato solo qualche tabulato in cui non vengono specificati a chi si riferiscono i numeri di telefono indicati e nemmeno le celle a cui si agganciano: dati importanti per determinare il luogo in cui i possessori del cellulare si trovavano.

I magistrati della procura generale del Cairo hanno consegnato in tutto una trentina di pagine, in arabo. Ci sono le telefonate fatte da sei cittadini egiziani, che si vanno ad aggiungere alla lista di altri cinque che erano già state consegnate in precedenza, e ai verbali di audizioni di testimoni. La procura ne aveva chiesti una ventina, ma non tutti sarebbero stati consegnati.

Dall’Egitto sono anche arrivati i referti medico legali relativi alla morte dei cinque banditi ritenuti appartenenti al gruppo di rapinatori che erano in possesso dei documenti del ricercatore universitario. I cinque sono stati uccisi, secondo le autorità del Cairo, in uno scontro a fuoco con la polizia, ma per i familiari (le cui testimonianze sono state in parte inserite nel fascicolo consegnato agli italiani) quello scontro a fuoco non ci sarebbe mai stato.

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I magistrati del Cairo hanno assicurato che consegneranno le relazioni scientifiche riguardanti gli esami degli abiti che Giulio indossava quando fu trovato morto. Di tutte le richieste avanzate con la rogatoria, ne restano dunque tre al momento ancora inevase.

Si tratta della testimonianza di una ventina di persone: i coinquilini di Giulio, gli amici, i docenti e i ricercatori universitari che frequentava al Cairo, i membri dei sindacati indipendenti e dei venditori ambulanti con cui era entrato in contatto per le sue ricerche, e chi ha ritrovato il corpo; l’elenco dei telefoni che il 25 gennaio hanno agganciato la cella di Dokki, il quartiere dove abitava Giulio, e che il 3 febbraio, giorno del ritrovamento del corpo, hanno impegnato la cella che copre la superstrada Cairo-Alessandria, richiesta che l’Egitto aveva definito incostituzionale (questione di privacy); i tabulati di 13 cittadini egiziani. Oltre a quelli dei sindacalisti, dei venditori ambulanti e di altri amici, la procura di Roma aveva chiesto i tabulati dei cinque presunti appartenenti alla banda di sequestratori che avevano i documenti di Giulio e che sono rimasti tutti uccisi dalla polizia in uno “scontro a fuoco”, che secondo i familiari non è mai esistito.

Quella che dovrebbe essere una normale procedura per tentare di risolvere un caso di omicidio, al Cairo si trasforma in un affare di Stato. In una complicazione internazionale. Forse perché gli autori dell’assassinio di Giulio sono persone che il governo di al Sisi deve proteggere? Qui tutto si complica e la verità si allontana.

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