La nostra nazionale più povera di talento punta sul “primo non prenderle”, senza portare avanti un’idea. La differenza nei giochi di potere, come sempre, la farà il risultato. Per questo l’Europeo di Francia-Belgio ha una valenza sottile anche sul fronte politico italiano

La peggiore Nazionale di sempre? Scaramanzia e ragionamento fanno dire sì. Sulla scaramanzia, poco da dire. Il vero tifoso dell’Italia si presenta all’appuntamento con le competizioni internazionali fasciandosi la testa prima di essersela rotta. A volte, ha funzionato. Da dieci anni non più. L’ultimo trionfo è nell’estate di Germania 2006. Da lì in poi, figuracce a scelta fra le eliminazioni mondiali al primo turno del 2010 e del 2014 e, agli europei, l’uscita ai quarti nel 2008 e l’orrendo cappottone 0-4 nella finale del 2012 a Kiev contro la Spagna, con Cesare Prandelli in panchina.

Chi ama il pallone in azzurro si aggrappa a tutti i paradossi. Uno dei più frequenti sostiene che l’Italia va meglio quando è perseguitata dai giudici per qualche scandalo scommesse. La frequenza dei blitz della polizia per partite taroccate è tale che in Europa e nel mondo dovrebbero vincere solo squadre italiane.

L’altro paradosso vuole che l’Italia reagisca alla grande in campo quando è attaccata dalla stampa. Nemmeno questo succede più. La rassegnazione regna fra i cronisti mentre Antonella Clerici su RaiUno propaga in diretta la lista dei 23 in un contesto dove il mezzo è il messaggio e il messaggio è che gli azzurri hanno le creste, hanno i sorrisi, ma sono tutti vestiti come per andare a un funerale.

Del resto, il commissario tecnico Antonio Conte, fresco di assoluzione nel traballante processo di Cremona, ha messo le mani avanti e, come dicono gli uomini del Sud, si è tirato la barca all’asciutto. Fra quelli che vanno in Belgio il cittì leccese ha il contratto più ricco a partire dalla prossima stagione, quando allenerà il Chelsea di Roman Abramovich. Il dimissionario Conte prenderà 20 milioni netti totali in tre anni ed è avvicinato solo dai 6,5 del centrocampista della Roma Daniele De Rossi, autore di uno dei golletti che hanno spezzato le reni a un’impresentabile Finlandia nell’ultima amichevole di lunedì 6 giugno.

Nel suo biennio alla guida dell’Italia Conte si è fatto pagare gran parte dell’ingaggio dallo sponsor della Nazionale (Puma). Come se il ministro delle Infrastrutture fosse stipendiato ufficialmente dall’associazione costruttori. Dopo la triste amichevole contro la Scozia del 29 maggio Conte ha detto che miracoli, lui, non ne fa.

E chi dovrebbe farli allora? Di sicuro non li farà Thiago Motta, bersagliato dai social e fischiato dall’intero stadio contro i finlandesi perché è mobile come un calciatore da subbuteo e porta il 10, quel numero che nel 2006 e nel 2002 l’Italia aveva assegnato a Francesco Totti, nel 1998 ad Alessandro Del Piero e nel 1994 a Roby Baggio.
Alla voce miracoli non si dovrebbe palesare nemmeno l’altro oriundo Eder, brasiliano come Motta ma incapace di farsi convocare in una seleção depressiva dove gioca titolare Hulk, non il Fenomeno Ronaldo. Non era meglio tentare una sortita nazional-situazionista e chiamare Lapadula (Pescara) e Iemmello (Foggia)?

Gli altri sei attaccanti, dopo l’autoeliminazione di Mario Balotelli, sono bravi figli in fondo. Proprio come il fu SuperMario, in fondo. Ma nessuno di loro ha mai segnato gol a pacchi.

Non Stephan El Shaarawy, faraone alla Roma e mummia al Milan. Non Ciro Immobile, emigrato di ritorno sulla linea Dortmund-Siviglia-Torino. Non Lorenzo Insigne, che pure è il talento migliore degli anni recenti. Non Federico Bernardeschi, il figlio del cavatore di marmo di Carrara. E neppure Simone Zaza che con scarso senso dell’opportunità si è intestato il soprannome di un camorrista omonimo (’o Pazzo). Sono tutti giovani ma hanno una misura di sregolatezza eccessiva rispetto al loro genio. E il centravanti titolare Pellè, che giovane calcisticamente non è più, è generoso e volenteroso, ma una volta l’Italia lasciava a casa gente come Pruzzo (1982) e Mancini (1994).

Conte direbbe che non si vive di nostalgia. Ma è esattamente quello che è costretto a fare lui. L’Italia di Francia-Belgio 2016 è, con meno talento, l’Italia di Ferruccio Valcareggi del 1968, lontano e unico caso di vittoria azzurra a un Europeo.

La nostra unica tattica per andare avanti nel torneo di Francia-Belgio è non prendere gol mai e tirare molto bene i rigori. Una volta si parlava di catenaccio e contropiede. Oggi di fase di non possesso e fase di possesso.
Resta il fatto che l’unico reparto degno della tradizione calcistica italiana è la difesa, con Giorgio Chiellini, Leonardo Bonucci, Andrea Barzagli e Gigi Buffon in porta. Sono quattro juventini. Vincono lo scudetto da cinque anni di fila. Si sono affacciati a una finale di Champions league l’anno scorso. Appartengono a un club che, entro pochi giorni, potrebbe essere l’unico dei tre di vertice a restare in mani italiane. L’Inter è la base europea dell’invasione dei cinesi, quelli che mangiavano i bambini, come ha ricordato Silvio Berlusconi. Anche se il patron del Milan pare sempre più restio a vendere a prezzi da saldo ai post-maoisti, i consigli di amministrazione della serie A potrebbero presto rispecchiare la situazione di tante partite di campionato, con pochi italiani protagonisti.

Non è una grande perdita. Se in campo va male, dietro le scrivanie è tragedia. La classe dirigente dalla quale si attendeva il rilancio non fa sistema. I manager passano il 50 per cento del loro tempo a dribblare il compagno di squadra e il restante 50 per cento a non farsi dribblare da lui. Non è competizione interna, è faida.

In Federcalcio si voterà all’inizio del 2017 ma la campagna sotterranea è partita ancora prima dell’inizio dell’Europeo. Il presidente in carica Carlo Tavecchio ha mostrato di essere più vicino all’etica del monaco shao-lin che a quella del medio ragioniere brianzolo. Della sua debolezza assoluta ha fatto una forza. Sta lì perché nessuno ha voglia di prendere schiaffi dai bulli arricchiti da Infront e riuniti nella Lega di serie A. Sta lì perché l’altra caratteristica della classe dirigente, calcistica e non, è quella dell’Italia di Conte: prima non prenderle. Portare avanti un’idea significa scoprirsi agli attacchi degli amici-avversari.

Dopo Tavecchio ci sarà Michele Uva, attuale direttore generale della Figc? Ci sarà il rampante presidente della Lega di serie B, Andrea Abodi? Ci sarà un Tavecchio bis?
Molto dipende dal piazzamento dei ragazzi di Conte. Uscire dopo quattro partite sarebbe un fallimento. Uscire dopo cinque, ai quarti di finale, un pareggio. Entrare nelle prime quattro sarebbe un trionfo.
La differenza nei giochi di potere, come sempre, la fa il risultato. Per questo l’Europeo di Francia-Belgio ha una valenza politica sottile anche sul fronte italiano.

Considerata la velocità con la quale il premier Matteo Renzi si fionda sulle vittorie di Valentino Rossi, Vincenzo Nibali o Claudio Ranieri, come se avesse comprato lui la moto o la bici o il centravanti Jamie Vardy, il dilemma del tifoso è simile a quello dell’elettore al referendum costituzionale.
Voto sì, Italia campione, e sopporto l’assalto dei politici al carro del vincitore.
Oppure voto no, Italia fuori al primo turno, massimo agli ottavi, e mi godo il carro del perdente. Questa seconda opzione si chiama Schadenfreude. Significa gioia della disgrazia altrui, anche quando è un po’ nostra. È un termine inventato dai tedeschi. Ricordate i tedeschi? Una volta erano quelli che da noi le prendevano sempre.