Parlano le docenti che hanno dovuto lasciare figli e mariti per spostarsi dal Sud al Nord ed essere immesse in ruolo. Con la speranza di tornare a casa... (Foto di Chiara Mirelli per l’Espresso)

Nevica di brutto sulla pianura friulana, anche se è un pomeriggio di sole quasi estivo. Raffiche di piumini strappati dai pioppi imbiancano la campagna e rischiano di infilarsi nel respiro della professoressa Profeta. «Nella scuola dove lavoro mi trovo benissimo. Ma fuori ci siamo dovute costruire una nuova vita. Perfino questi cosi qui sono una novità per me» e Carmen Profeta, 52 anni, spedita in quattro e quattr’otto a insegnare italiano alle medie di Aviano, provincia di Pordenone, si protegge il sorriso da un batuffolo sospeso a mezz’aria: «A casa mia a Catania non esistono pioppi e nemmeno piumini che ti volano in bocca mentre parli».

Benvenute al Nord. L’anno scolastico 2015/16 si sta concludendo anche per le migliaia di docenti ex precari che a settembre e a novembre, con due convocazioni distinte del ministero, hanno attraversato l’Italia. Dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Campania al Friuli Venezia Giulia, all’Emilia Romagna, alla Lombardia, al Veneto, al Piemonte. Un pesante sacrificio in cambio dell’immissione in ruolo a tempo indeterminato. Tra questi numeri di immigrati interni costretti a lasciare casa, un anno ancor più sofferto lo hanno affrontato le donne che in meno di dieci giorni, dalla chiamata all’entrata in servizio, hanno dovuto pianificare una nuova vita lontano dalla famiglia. E soprattutto dai figli, a volte molto piccoli.
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Potremmo chiamarle le mamme della Buona scuola, dal nome con cui il ministro Stefania Giannini e il governo hanno presentato la nuova legge: “l’Espresso” le ha incontrate per sentire dalla loro voce come sono sopravvissute all’annus horribilis. Dal prossimo settembre però potrebbe andare addirittura peggio, con le conseguenze della mobilità obbligatoria alla quale vanno incontro: di fronte all’improbabile prospettiva di un riavvicinamento a casa, rischiano nel migliore dei casi di rimanere dove sono o addirittura di essere trasferite in un’altra regione. Dove ricominciare ancora una volta, un’altra vita. Daccapo.

Quale tasso di civiltà può pretendere un Paese che annulla ogni forma di tutela e obbliga una madre a staccarsi dai suoi bambini e dai suoi ragazzi? La domanda riguarda tutti noi: il governo di Matteo Renzi che ha deciso il provvedimento e gli italiani che in questi mesi a stragrande maggioranza hanno condiviso i trasferimenti forzati come un fatto normale e necessario, nell’era della disoccupazione galoppante e del lavoro pagato a voucher.

«Spero che possa festeggiare con la sua famiglia, con i suoi cari, con i suoi amici. Brindo metaforicamente al suo lavoro», è scritto nella lettera che il presidente del Consiglio ha fatto arrivare ai neoassunti della Buona scuola. Festeggiare? Brindare? Francesco, 10 anni, dopo i primi mesi di assenza della mamma, Pasqualina Nunneri, 46 anni, maestra elementare spedita da Napoli a Milano, le confida: «Mamma, mi congelerei adesso e mi scongelerei a giugno, quando ritorni». Di fronte al desiderio di ibernazione di un bimbo basterebbe almeno il grazie sincero del presidente della Repubblica a nome degli alunni, dei genitori, dei docenti mai partiti da casa, dei dirigenti scolastici, del ministro, del governo, degli italiani: perché è grazie al sacrificio personale di bambini come Francesco e di famiglie come la sua che la scuola italiana, anche quest’anno, ha potuto funzionare. Ma quel ringraziamento collettivo non si è sentito.

Le mamme-insegnanti sono consapevoli dell’opportunità storica di cui hanno beneficiato: l’immissione in ruolo a tempo indeterminato. Più che a un’offerta di assunzione, però, hanno dovuto rispondere un brutale ricatto economico: accettare subito e partire o rinunciare per sempre al lavoro nella scuola, anche dopo quasi vent’anni di attività come docenti precari. «Basterebbe estendere il tempo pieno al Sud per risolvere il sovrannumero di insegnanti rispetto agli incarichi disponibili», dice Ermanno Infantino, 45 anni, promotore di un forum su Facebook che riunisce familiari e docenti, un anno da single forzato a Palermo, la moglie maestra inviata a Milano e due figli a carico di 19 e 13 anni rimasti con il papà: «Ho scoperto che al Nord c’è bisogno di personale perché lì il tempo pieno è ovunque, mentre al Sud non si fa. Lo fanno soltanto le scuole private. Così le donne lavoratrici portano i figli alle private. Se si facesse il tempo pieno al Sud, ci sarebbe la possibilità di integrare molti più insegnanti».

Basta la statistica del ministero dell’Istruzione a dargli ragione. Tempo pieno nel Lazio: 52,8 per cento degli alunni. Lombardia: 50,3 per cento. Toscana e Piemonte: 49,7. Emilia Romagna: 47,8. Liguria: 47,5. Friuli Venezia Giulia: 39,9. Veneto: 32,2. Campania: 11,1. Sicilia: 7,2. E Palermo: 4,5. Contro il 90,4 per cento di Milano. La lobby della scuola privata ringrazia. E ancora una volta, nella storia italiana, gli emigranti del Sud garantiscono l’efficienza dei servizi al Nord e al Centro.

Ciascuna delle mamme che abbiamo intervistato sta lavorando a una distanza media di quasi mille chilometri da casa. Nessuna ovviamente si è portata bimbi e ragazzini al seguito, dovendo per ora insegnare in sedi provvisorie e non potendo sopportare ulteriori costi di asili nido o baby-sitter. Carmen Profeta, la professoressa inviata in provincia di Pordenone, ha lasciato in Sicilia due figlie di 21 e 11 anni: da Catania ad Aviano sono 1.378 chilometri. Alessandra Esposito, 46 anni, professoressa di diritto, ha un figlio di 14 anni di cui è genitore unico dopo la morte del padre: 815 chilometri da Salerno a Parabiago, appena fuori Milano. Assunta Masucci, 35 anni, maestra nella scuola primaria, ha un bimbo di un anno e qualche mese lasciato al papà e ai nonni: 777 chilometri da Mugnano del Cardinale, provincia di Avellino, a Milano. Marianna Russo, 45 anni, maestra elementare, tre figli di 20, 15, e 4 anni: 808 chilometri da Cava de’ Tirreni a Reggio Emilia. Barbara Glaviano, 43 anni, maestra elementare, due figli di 19 e 13 anni: 1.476 chilometri, da Palermo a Milano. Pasqualina Nunneri, la mamma di Francesco, anche lei maestra elementare, due figli di 13 e 10 anni: 771 chilometri da Napoli a Milano. Stessa origine e stessa destinazione per le colleghe Maria Caserta, 47 anni, due figlie di 22 e 18 anni. E Paola Sarnelli, 41 anni e tre figlie di 11, 8 e 4 anni.

Spesso sono i papà a dover lavorare lontano dalla famiglia. Che lo facciano anche le donne, non è segno di emancipazione nelle pari opportunità? «No, questa non è più parità», risponde la professoressa Profeta, seduta ai tavolini nella tranquillità di piazza Cavour a Pordenone, «perché io sono qua e non sto aiutando la mia famiglia. È mio marito con il suo stipendio a sostenere tutta la famiglia. La mia paga è di circa milleduecento euro al mese e se ne va quasi tutta in spese. Quattrocento euro per l’affitto del monolocale. Più le spese per mangiare, i trasporti locali. Vivere qui è costoso. E poi duecento euro di aereo per tornare ogni tanto a Catania, dalle mie figlie, da mio marito: una volta al mese, di più non me lo posso permettere. Ho sentito qualcuno dire che ci danno indennità di trasferta e sconti sui viaggi. Non è vero, prendiamo le stesse cifre dei colleghi che lavorano a due passi da casa».

Non ha provato a sottrarsi al trasferimento? «Non c’era altra scelta. Ci hanno detto che avrebbero chiuso le graduatorie a esaurimento. Io insegnavo già dal 2005. In Sicilia ho fatto di tutto. Tanta esperienza nelle scuole delle periferie più difficili di Catania. Sostituzioni a San Cono, centottanta chilometri al giorno di macchina tra andare e tornare, anni trascorsi con il telefono in mano ad aspettare la chiamata per una supplenza, corsi di specializzazione, la salvaprecari... Come tanti colleghi vengo da quella vita lì. Insegnare è la mia passione, è vero. Ma lavorare in due in famiglia è anche una necessità. Quando il 2 settembre ho visto che mi avevano preso in ruolo a Pordenone, non sapevo se gioire per l’assunzione o piangere. E ho pianto tantissimo, per giorni interi. Vedevo le mie figlie e piangevo. Lei deve pensare cosa significa guardare l’Italia dalla Sicilia. Allora ho cercato delle supplenze a Catania. Ma niente da fare. Quella sera sono tornata a casa e ho detto a mio marito: parto. E lui: come parti? Sì, parto, non posso chiedere l’elemosina di una supplenza, è una questione di dignità e di responsabilità, se serve faccio anche questo. E lì ci siamo messi a piangere tutti e due. Poi io sono finita a Pordenone. Mio marito all’ospedale di Brescia, per un intervento chirurgico programmato da tempo. Le ragazze a Catania».

Si è mai sentita in colpa per la sua scelta? «Sì, ci sono dei momenti in cui penso che ho sbagliato, che ho fatto soffrire la mia famiglia, perché loro pagano più di me. Le ragazze hanno sentito la mancanza, il disorientamento di avere la mamma a millequattrocento chilometri. La piccola l’ha sentito in particolare. Ha perso un po’ del suo entusiasmo, non vuole più suonare, ha smesso le lezioni di canto. A gennaio voleva salire da me. La grande ha pianto ogni volta che sono ripartita, come fosse settembre. Però se la sono cavata alla grande, sia loro, sia mio marito. Abbiamo tenuto duro. Vede, io non sono contro il lavoro a distanza. Ma dovrebbe riguardare colleghi appena laureati, che devono ancora fare esperienza. Io sono una madre di famiglia, ho 52 anni, due figlie, ventitré anni di matrimonio e undici di insegnamento nelle aree più difficili della Sicilia. Alla mia età si hanno anche i genitori anziani e malati da accudire. E ti cade addosso la mannaia: prendere o lasciare. Ringrazio i colleghi friulani che mi hanno aiutata. Mi hanno accolta in un ambiente di lavoro davvero bello. All’inizio alla maniera friulana, gentile ma un po’ riservata. Poi però con grande calore».

Andrea, il bimbo nato il 14 giugno 2014, sorride paffuto nella foto sul telefonino della mamma. E a lei, la maestra Assunta Masucci, incontrata con le colleghe nel quartiere vicino a piazzale Loreto a Milano, si illuminano gli occhi di lacrime. Quando è partita, ha messo nella valigia una maglietta di Andrea per continuare ad annusarlo. «Nessuno ci restituirà quest’anno di lontananza», dice, «e nemmeno abbiamo la possibilità di fare programmi. Dopo nove mesi siamo nella stessa identica situazione di settembre 2015. I genitori dei miei alunni e spesso le colleghe non sono consapevoli di quello che stiamo affrontando. Ho continui sensi di colpa. Gestire un bambino a ottocento chilometri dà spazio a incomprensioni. Mi sono persa le prime parole di Andrea. Quando torno non chiama mamma, dice nonna, nonno. Devo ringraziare i miei splendidi genitori, li ho caricati di una grande responsabilità. È capitato più volte di andare in crisi, di pensare di mollare. Mi ha sostenuto mio marito. Prima della nascita di Andrea, avevo già fatto quattro anni a La Spezia con la speranza di entrare in ruolo. Niente. Se avessi usufruito del congedo, ora avrei perso l’anno di prova. Mio figlio mi manca tantissimo, ma anche una donna ha diritto ad avere un lavoro». Assunta spende ogni mese 450 euro per una stanza condivisa con una collega calabrese, più il mangiare, più 550 euro per i biglietti del treno. Arriva a casa il venerdì sera tardi. Riparte per Milano il lunedì all’alba.

«Il senso di colpa mi accompagna tuttora e ho bisogno di una giustificazione per aver anteposto il lavoro alla famiglia», racconta Maria Caserta, anche lei spedita da Napoli a Milano: «Mi sono riletta “Le madri non sbagliano mai” di Giovanni Bollea». La maestra Maria Caserta ha una laurea in sociologia, diciotto anni di insegnamento nella scuola pubblica, quattro concorsi superati a zero posti, due nella primaria e due nella scuola per l’infanzia, quattromila euro spesi per il corso di specializzazione e mille nei primi dieci giorni di vita a Milano: «Con altre colleghe siamo dovute rimanere dieci giorni in un hotel a due stelle, 80 euro a notte, più i pasti». Oggi non è che Maria Caserta riesca comunque a risparmiare. Dallo stipendio di 1.280 euro al mese vanno tolti: 250 per l’affitto del letto in un monolocale condiviso con tre colleghe, 200 di bollette da suddividere in quattro, 500 di spesa, 600 di treno. «Quando va bene, mi rimangono in tasca cento euro. Altrimenti, pur lavorando, ci rimetto. Milano è cara. La soddisfazione però è di avere dimostrato che la continuità didattica l’abbiamo garantita. Non abbiamo avuto paura della distanza. Dopo diciotto anni, questo è il mio anno di prova, sì. Ma il merito di avercela fatta me lo prendo tutto».

Una mamma che ha due figlie piccole con la febbre a trentanove di solito è accanto a loro. Ma Paola Sarnelli, napoletana anche lei, partita da Portici per Milano come insegnante di sostegno, oggi non può raggiungerle. È un mercoledì e deve aspettare venerdì sera. «La mia più piccola di quattro anni piange ancora e vuole telefonarmi in continuazione», racconta: «Ovviamente anche il papà lavora e il pomeriggio le piccole sono seguite da una baby-sitter che mi sostituisce e costa quasi tutto il mio stipendio. La prima volta che sono salita a Milano, mi ha accompagnato in macchina mio marito con le bambine. Al ritorno hanno pianto ininterrottamente da Milano a Bologna. La più piccola ha continuato anche la notte. Mio marito mi telefona e mi chiede di ritornare. È solo il primo giorno e già mi chiede di ritornare. Gli dico di aspettare un po’. La seconda fa la quarta elementare e ha avuto un calo di rendimento. Il primo anno è passato tra nottate insonni e coccole al telefono. E adesso ci aspetta l’incertezza di una nuova mobilità obbligatoria. Bisogna far sapere che la Buona scuola è anche questo. Però il racconto delle nostre emozioni non ha prodotto seguito. L’opinione comune è che ci abbiano regalato il ruolo senza nessun sacrificio in cambio».

Alessandra Esposito, professoressa di diritto abilitata dal 1999, è spaventata dalla solitudine in cui ha dovuto lasciare suo figlio, 14 anni, terza media, adolescenza incombente. E dal fatto di essere genitore unico, dopo la morte del compagno: «Non rientro nella casistica: il genitore unico non è nemmeno contemplato nei punteggi. Mio figlio», spiega, «l’ho dovuto affidare a mia mamma, a una zia che ha cresciuto anche me e pago un’insegnante per il doposcuola. Ho pianto tanto, sì. È capitato anche al lavoro, in sala professori e sono stati tutti molto carini». La professoressa Esposito conserva la foto di una delle sue prime mattine lombarde mentre va al lavoro: 3 dicembre, ore 7.09, buio, luce metallica, nebbia, strada deserta. «Salerno è una città luminosa, a misura di persona. No, no», sorride, «non penso di portare mio figlio su».

Il solito impatto climatico sulla bellezza del Sud. Retroscena più o meno simpatici, su cui Luca Miniero potrebbe girare il seguito di “Benvenuti al Nord”. Come i professori mandati a vigilare sul parcheggio delle biciclette in provincia di Brescia: «Siamo dovuti intervenire come sindacato», rivela Mario Soldato, segretario provinciale dello Snals. O la marcetta militare con cui il papà, approfittando dell’assenza della moglie, sveglia i bambini: «Una mattina mi chiama mia figlia: mamma, per favore, fallo smettere», dice ridendo Pasqualina Nunneri. E l’impressione di lentezza che i milanesi hanno dato a Maria Caserta e alle sue colleghe napoletane: «Sì proprio così. A Napoli un cameriere ti serve diciotto caffè in un attimo, a Milano sono lenti. Fai la coda per qualunque cosa». Anche la gentilezza della dirigente di Reggio Emilia, che organizza i turni affinché Marianna Russo possa trascorrere due giorni su sette con i suoi figli in Campania. E infine il no corale alla domanda fatidica: ma voi vi trasferireste per sempre dove il ministero vi ha mandate? La professoressa Profeta è l’unica a pensarci su: «Ho sempre visto il mio lavoro a Catania come un tassello della Sicilia sana che vuole riscattarsi. Andare via significa rinunciare a questa funzione civile. Ma io ho 52 anni. Se rifletto, vedo che ci si è presentata una svolta nella vita. Il Friuli mi ha accolto bene. Trasferirci qui sì, io e mio marito ci stiamo davvero pensando. E siamo molto combattuti».

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