La storia di Monsef, partito da Bergamo per uccidere con l'Is e ora ricercato

Era arrivato in Italia dal Marocco poco più che bambino. Poi da Orio è andato a uccidere ?in Siria. Dove cercava (invano) ?di arruolare gli amici rimasti qui. Adesso per lui è stato spiccato un ordine di arresto

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Un nuovo ordine d’arresto rilancia l’allarme sul reclutamento via Internet di giovani jihadisti pronti a passare al terrorismo. I magistrati di Milano hanno spiccato un mandato di cattura internazionale contro due ventunenni italo-marocchini che, dopo essere fuggiti da una comunità per ragazzi senza famiglia, hanno raggiunto la Siria e sono diventati combattenti di Daesh (l’acronimo del cosiddetto Stato islamico).

Dal fronte di guerra, per mesi, i due giovani hanno tempestato di messaggi i loro amici musulmani, nel tentativo di convincere anche loro a unirsi all’esercito nero del Califfato. La stessa inchiesta dimostra però che i loro coetanei, benché minacciati e impauriti, hanno detto no a Daesh. Anzi, hanno litigato con i due jihadisti, accusandoli di essere «solo dei matti» e di aver «tradito la religione islamica» facendosi «lavare il cervello» dagli ideologi della violenza. Quindi gli amici sono rimasti in Italia, dove ora sono protetti dalla procura e dalla polizia giudiziaria.

I due giovani ora accusati di terrorismo internazionale, Monsef El Mkhayar e Tarik Aboulala, nati in Marocco nel 1995, erano arrivati in Italia poco più che bambini: rimasti senza genitori, sono cresciuti in una comunità-modello fondata da un sacerdote cattolico a Vimodrone, alle porte di Milano. La storia della loro improvvisa e tragica svolta jihadista è stata raccontata da “l’Espresso” nel giugno scorso, dopo che Monsef aveva pubblicato su Internet una foto-ricordo dell’amico Tarik, armato, con l’annuncio che era diventato un «martire» di Daesh. Ora sono entrambi ricercati, formalmente, ma di fatto le indagini della polizia confermano la morte di Tarik: un ragazzo che si è lasciato indottrinare da Monsef, a sua volta radicalizzatosi in pochi mesi su Internet.
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Partiti in aereo da Orio al Serio, i due ragazzi sono arrivati in Siria nel gennaio 2015. Tre mesi dopo, hanno cominciato a pubblicare le loro foto di guerra con mitra, pistole e coltelli, accanto ad altri combattenti con le bandiere nere del Califfato. In tutti questi mesi, i due ragazzi hanno continuato a contattare amici musulmani cresciuti in Italia come loro, nel tentativo di reclutarli. Monsef sta insistendo anche in questi giorni, quando ormai sa di essere ricercato.

L’indagine della Digos ha documentato, tra l’altro, le «minacce di morte» con cui ha terrorizzato un innocente ragazzo italo-marocchino, che si è rifiutato di partire per la Siria: «Quando arrivo ti taglio la testa. Hai visto Francia, Francia», gli ha detto Monsef nel dicembre 2015, riferendosi alle stragi di Parigi. Poi, il 26 maggio scorso, lo stesso Monsef conferma che «Tarik è morto, era un vero uomo ed è andato in paradiso». Ad ascoltarlo, questa volta, è una ragazza che vive nel Nord Italia e detesta i jihadisti. Lui le dice che ogni musulmana avrebbe «il dovere religioso» di «venire qui in Siria per sposare un guerriero di Daesh». Ma lei si rifiuta e lo insulta: «Sei solo un c.... Lì ti hanno fatto il lavaggio il cervello. Dici che devi morire? Ma questo non è Islam! Che Allah maledica i tuoi genitori!».

La ragazza, impressionata, si confida con una parente, una signora musulmana che vive da anni in Italia, ripetendole le parole più gravi di Monsef: «Gli ho detto di tornare qui, ma lui ha risposto: “Quando verrò, mi farò esplodere”». E qui la signora commenta: «Devi dirgli che i veri miscredenti sono quelli vicino a lui lì... Che l’Italia è il paese che ti ha dato da mangiare, mantenuto e fatto studiare». La ragazza è spaventata: «Questo pensa di venire qui a fare qualche disgrazia nera. Gli ho detto che è solo un matto». Anche la signora conosce bene Monsef e piangendo conclude: «Noi lo dobbiamo dimenticare. Purtroppo ormai è meglio se ci arriva la notizia che è morto lì».

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