Il passato da skinhead, con risse e aggressioni. Il padre violento che gli ha distrutto la vita. L’omicidio per salvare la madre e il fratello da quel genitore che entrava e usciva dal carcere. E li minacciava, urlando, che non avrebbero visto il sole del giorno dopo. La galera nelle celle-loculi di San Vittore prima e di Opera poi. Infine, la rinascita e il riscatto nel penitenziario di Bollate. Da detenuto senza alcuna speranza di salvezza a esperto di sicurezza informatica per importanti multinazionali. Proteggere da attacchi esterni di spioni e ficcanaso la rete internet è compito di estrema delicatezza. Per questo il salto in lungo di Luigi Celeste, da carcerato comune a responsabile di progetti “sensibili”, non ha eguali in Italia e in Europa.
Luigi non ha avuto il privilegio di una vita semplice. Certo, in alcuni casi i guai se li è andati a cercare. Spesso, però, sono loro che hanno trovato lui. I fanatici delle etichette avrebbero definito il suo un caso perso. E in un Paese dove gli istituti di pena sono sinonimo di marginalità e non di reinserimento, il destino di Luigi sembrava segnato per sempre. Eppure fin dalla prima sosta nel girone dei condannati, a San Vittore, Luigi aveva già sognato tutto del suo futuro. Non gli restava altra scelta che realizzare quel desiderio di riscatto confessato una notte d’inverno al suo compagno di cella. Un tossicodipendente con il quale aveva stretto amicizia e a cui aveva chiesto di fargli da padrino per la cresima: A lui Luigi aveva raccontato di voler investire ogni grammo della sua energia per diventare uno specialista di cyber security. Così codici cifrati, algoritmi, numeri, stringhe sono diventati un’ossessione negli 8 anni trascorsi in cella. L’unico scoglio al quale aggrapparsi per salvarsi dall’alienazione.
Luigi Celeste è finito dentro per omicidio. Parricidio, per l’esattezza. Ha ucciso il padre a colpi di revolver: un gesto covato per mesi nei confronti dell’uomo che stava rendendo impossibile la vita di sua madre e di suo fratello, il bravo ragazzo della famiglia. Un gesto estremo vissuto come una liberazione. Poi la fuga, a casa della compagna. Infine, la corsa per costituirsi dai Carabinieri.
Luigi non è stato quel che si dice un ragazzo modello. Cresciuto senza una figura maschile di riferimento. Il padre rapinatore, che trascorre gran parte della sua esistenza nelle celle dei penitenziari milanesi. Così Luigi si avvicina al mondo dell’estremismo politico. Diventa un temibile skinhead della Milano dal cuore nero. E inizia a frequentare gli ambienti della destra più estrema. Con il gruppo di cui fa parte finisce più volte nei guai per rissa e violenza. Un passato che poi, negli anni della galera, ha tentato in tutti i modi di espellere dal suo curriculum. Oggi è solo un ricordo sbiadito. Un capitolo cestinato per sempre, ripete spesso durante l’intervista concessa a “l’Espresso”.
Ma una volta scontata la pena quel passato non lo ha abbandonato. Certe etichette ti restano incollate sulla pelle. E basta un piccolo passo falso per ripiombare nell’incubo. L’errore è stato fidarsi di alcuni vecchi camerati. Si sentiva in debito perché lo avevano sostenuto durante il processo. Accettò la loro proposta di diventare il modello per magliette del circuito nazi. «Non avevo visto simboli strani sulle magliette, ma chiesi di non fotografarmi in volto. I miei tatuaggi, però, erano ben visibili. Fu facile per i giornalisti capire di chi si trattava. E scrissero. Entrai di nuovo in quel tunnel che credevo di essermi lasciato alle spalle: Il tribunale sospese la semilibertà. Decisi allora di recidere per sempre ogni legame con quel mondo che continuava a portarmi solo guai».
Il successo della riabilitazione di Luigi non è solo questione di volontà individuale. Alla radice c’è l’incontro con un professionista del settore, Lorenzo Lento. È lui la mente che ha partorito l’idea e l’ha realizzata quasi 15 anni fa nel carcere modello di Bollate. Da esperto di informatica avanzata, ha scelto di dedicare parte del suo tempo a insegnare ai detenuti. Grazie al suo impegno ha spinto la Cisco, società leader mondiale dell’informatica, ad aprire una Academy all’interno della casa di reclusione milanese. Il cuore del progetto sono i corsi di formazione di altissimo livello riconosciuti in tutto il mondo. Conoscenze tecniche che una volta acquisite garantiscono un buon posto di lavoro.
«Nel 2002, quando è stata firmata la convenzione, eravamo gli unici al mondo. Tanto che, nel 2003 in Sud Africa a Johannesburg, l’allora direttrice Lucia Castellano ha ritirato il premio per il progetto più innovativo di formazione», racconta Lento. Che aggiunge: «Oggi nel mondo esistono oltre 30 penitenziari fra Europa e Usa che accolgono una Academy, ma nessuno ha mai raggiunto i nostri livelli di certificazione. Dopo tanti anni e tanti governi l’unico ad essersi accorto del potenziale di questo progetto è il ministro Andrea Orlando che dice di volere espandere questo esperimento virtuoso di Bollate».
Formazione e lavoro, dicono i dati, abbattono la recidiva dell’80 per cento. In pratica, studiare, imparare un mestiere, sono solidi mattoni su cui costruirsi una vita onesta una volta fuori dal microcosmo carcerario. La questione è in cima alle priorità del Guardasigilli. È un suo cruccio, forse la missione del suo mandato a cui tiene di più: riformare la galera. «Il carcere viene usato come strumento di propaganda e di paura. Paure spesso legate più alla realtà percepita. Dobbiamo quindi spiegare che serve a realizzare sicurezza, ma a patto che non sia sinonimo di segregazione. All’interno devono prevalere percorsi che siano condizione per una reintegrazione sociale.
Abbiamo bisogno di strutture, insomma, che siano strumenti contro il crimine e non scuole di formazione della criminalità pagate dai contribuenti». Un intervento potente pronunciato da Orlando durante gli Stati generali dell’esecuzione penale due mesi fa. Concluso con la promessa di investire 10 milioni di euro per potenziare il sistema: «Anzitutto potenziando il settore dell’esecuzione penale esterna, quella delle «misure di comunità» verso le quali deve progressivamente spostarsi la sanzione penale e che i sindaci dovrebbero utilizzare di più. I cittadini vi ringrazieranno quando vedranno i giardini puliti dai detenuti». I numeri, in effetti, sembrano dargli ragione. Da quando è diventato ministro il trend è in continua crescita. E i 14 mila del 2014 sono diventati 15.524. Con una crescita anche delle persone impegnate in lavori esterni. Con contratti, cioè, che non gravano sulle casse dello Stato. Ma soprattutto sono la frontiera più importante del reinserimento sociale. La regione più virtuosa è la Lombardia. Qui, grazie anche all’esperienza di Bollate, in quasi 3 mila hanno scelto di rimboccarsi le maniche provando a inventarsi un futuro. Di questi ben 639 lavorano per aziende, cooperative, società varie.
Un doppio primato nel Paese delle gabbie disumane. Non è un caso, quindi, che la “pazza idea” di Lorenzo Lento abbia preso forma e sostanza proprio in Lombardia. Ora, Lento, vorrebbe esportare, tra tante difficoltà, il modello anche in altri istituti: «Avevamo aperto un laboratorio al minorile di Firenze, ma poi la burocrazia si è messa di traverso. È davvero un peccato per questi ragazzi. Anche a Milano Opera vorremmo avviare il progetto, ma è da più di un anno che attendiamo risposte definitive sulla disponibilità dei locali per iniziare l’attività».
Lento per l’impegno di volontario a Bollate ha ricevuto anche un prestigioso premio internazionale: miglior istruttore Cisco. In effetti il riconoscimento, da quel che racconta, è meritato. In questi anni si sono certificati con il massimo dei voti Giuseppe P, ex rapinatore seriale; Massimo U e Abdel K., ex trafficanti internazionali di droga; Bogdan S, alle spalle più di un omicidio; Anier S, ex rapinatore di gioielli. Di questi, in due hanno già in tasca un contratto a tempo indeterminato. È il caso di Abdel, per esempio, che ora si occupa di migliorare le reti interne e i server per una società lombarda con 13 sedi aperte. E di Luigi, la punta di diamante del gruppo, che da qualche tempo ha persino aperto una partita Iva e si è messo in proprio. Continua a lavorare per la multinazionale con cui ha iniziato e in più ha ampliato il suo portafoglio clienti.
«Il lavoro non manca e si guadagna anche bene», sorride soddisfatto Luigi. Prima di raggiungere la vetta, però, il cammino è stato faticosissimo. «Ho tentato in tutti i modi di arrivare a Bollate, sapevo dell’esistenza dell’Academy. Ci sono riuscito nel 2010, dopo aver visto San Vittore, terribile, e Opera, che i detenuti chiamano la tomba dei vivi. Poi, finalmente ricevo la comunicazione tanto attesa: Bollate aveva accettato il mio inserimento. Qui ho conosciuto Lorenzo e ho iniziato a studiare: ho fatto 43 esami complicatissimi e un test che la maggior parte delle persone deve rifare due volte. Per farlo, tra l’altro, ho dovuto aspettare i primi permessi premio perché si svolgono in aule particolari dell’azienda con computer sofisticati. L’ho superato al primo colpo. È stato come fare il pieno di autostima. Non solo per me, ma anche per chi mi ha guidato lungo tutto il percorso. In particolare Lorenzo Lento, che in quel momento, dopo la bella notizia, decise di aprire una cooperativa. Mi assunse subito e nel 2013 mi fu affidato un progetto al conservatorio Giuseppe Verdi, all’epoca diretto da Arnoldo Mosca Mondadori. Il mio compito era gestire la rete informatica. Nello stesso periodo mi sono iscritto, a mie spese, a un altro corso di alta formazione Cisco. Finito con il conservatorio è arrivata la proposta che mi ha cambiato la vita: proteggere la rete informatica di una grande multinazionale. Avrei dovuto mettere in collegamento le vari sedi estere con connessioni sicure, a prova di hacker. Una sfida enorme, ma stimolante».
isultato? «Chiuso quel progetto mi chiesero di portarne avanti altri. Nel frattempo è arrivato, nel febbraio 2016, il fine pena. E da qui la decisione di camminare solo sulle mie gambe: sono diventato un professionista autonomo con la mia partita Iva e con i miei clienti». Luigi in qualche modo si è salvato proprio nel momento in cui ha commesso il reato. Da quel momento tutta l’esistenza ha assunto un valore diverso. Mai come allora gli appariva così nitido l’obiettivo che voleva raggiungere. Ne ha percorsa di strada Luigi. «Prima della condanna non sapevo molto di informatica, per me era solo una passione che non potevo coltivare perché molto costosa. Montavo condizionatori, facevo l’operaio. Di pc capivo il giusto. Quando però ho saputo di questi corsi mi sono detto: posso realizzare un mio sogno».
Nella sua memoria sono scolpiti i ricordi bui degli anni trascorsi aspettando l’ora d’aria e la doccia insieme a criminali di ogni risma. Prima di arrivare a Bollate, ha vissuto le peggiori contraddizioni del sistema carcerario italiano. Quelle per cui l’Europa ha sanzionato l’Italia. Spazi minuscoli, affollatissimi, sporcizia. Dal passato riaffiorano immagini drammatiche. Che ancora oggi lo angosciano. Non dimenticherà facilmente, per esempio, la sezione del 41 bis vista dalla finestrella della sua cella nel carcere di massima sicurezza di Opera. «Vedevo i mafiosi reclusi. Più che i loro corpi, mi sono rimaste impresse le loro ombre proiettate sui muri. La luce sempre accesa e le finestrelle sigillate dal plexiglas. Mi davano l’idea di fantasmi murati in una tomba di cemento e ferro».
Così come non potrà mai scordare il limbo di San Vittore: «Un porto di mare, tutti in attesa di giudizio. Motivo per cui non c’è assolutamente nulla da fare. Nessuna attività, nessun corso. Un’estenuante attesa del giorno del giudizio per essere poi trasferiti in un carcere per condannati». Ma ciò che custodirà per sempre sono le parole spese dal pubblico ministero durante il processo in cui è stato condannato con tutte le attenuanti del caso: «Il padre di Celeste ha infierito da vivo» ha scandito il magistrato durante la requisitoria, «non permettete che infierisca anche da morto».