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16 luglio, 2025La sortita potrebbe incrinare la fragile maggioranza del presidente e provocare scossoni. I precedenti non mancano e anche se il respiro è corto l’effetto è deflagrante
Chissà se gli americani che fino a pochi mesi fa applaudivano Elon Musk ai comizi di Trump, con i cappelli rossi Maga calati in testa, hanno mai sentito nominare Epaminonda. Eppure, è proprio al generale tebano che «infranse il mito dell’invincibilità spartana» a Leuttra che si ispira la strategia del nuovo partito con cui il miliardario punta a rottamare il duopolio repubblicano-democratico e ridisegnare lo scacchiere della politica americana.
L’obiettivo dell’America Party è giocare di precisione come l’eroe antico, «concentrandosi su appena 2 o 3 seggi al Senato e su 8 o 10 collegi alla Camera» alle elezioni di metà mandato, previste per novembre 2026.
Un’operazione al bilancino. Oggi i repubblicani in Congresso si reggono su piedi di creta: sei seggi di vantaggio al Senato (53 a 47) e appena otto alla Camera (220 a 212), una maggioranza che può sgretolarsi al primo scossone. Alla nuova formazione basterebbe conquistare qualche seggio o impedire qualche conferma puntando su altri candidati, per insidiare il fortino rosso di Capitol Hill. In uno scenario simile, con Hakeem Jeffries alla presidenza della Camera, i democratici potrebbero avviare inchieste parlamentari e persino rimettere sul tavolo l’ipotesi di un terzo impeachment. Se riuscissero a strappare pure il Senato, qualsiasi nomina dell’amministrazione finirebbe in stallo. Ma basterebbe una sola Camera per azzoppare la presidenza.
Trump liquida l’operazione America Party come un «deragliamento» dell’ex amico ormai fuori controllo. Secondo il presidente, Musk avrebbe sbattuto la porta per ragioni fin troppo venali: il taglio degli incentivi alle auto elettriche, che colpisce Tesla, e la bocciatura del suo candidato alla guida della Nasa, incarico che avrebbe fruttato fior di quattrini a SpaceX.
L’imprenditore, invece, imputa la rottura alla frustrazione per i risultati del suo Department of Government Efficiency, l’agenzia creata per combattere gli sprechi federali, e soprattutto al Big Beautiful Bill, la maximanovra a cui attribuisce la colpa di far lievitare pericolosamente il debito pubblico. Per lui gli schieramenti tradizionali sono in realtà un «monopartito» d'élite, una macchina di sprechi e corruzione.
«Non credo che questa storia del terzo partito abbia vita lunga, ma se dovessi scommettere, direi che Musk appoggerà solo un numero sufficiente di candidati alle imminenti primarie di midterm, quanto basta per scuotere senatori e deputati repubblicani esitanti, e incrinare la loro fedeltà a Trump», dice a L’Espresso Steven Livingston, direttore dell’Institute for Data, Democracy and Politics di Washington. In altre parole, potrebbe diventare una forza di contrappeso senza però avere reali ambizioni da terzo polo. «Prima di tutto, annunciare la nascita di un partito significa dargli una presenza concreta almeno negli Stati in bilico. L’obiettivo, in teoria, sarebbe arrivare a coprirli tutti», riflette Livingston. E aggiunge che se Musk fosse strategico, resterebbe in seno al Gop, continuando nel segno dei fratelli Charles e David Koch, i miliardari che dopo la sconfitta elettorale del Partito Libertario nel 1980, decisero di investire enormi risorse per conquistare dall’interno i repubblicani, finanziando candidati e think tank.
Nulla è escluso. Musk potrebbe pescare anche tra i conservatori che hanno votato Kamala Harris pur di non appoggiare il tycoon. Più problematico arrischiarsi in una virata completa a sinistra. «Il sostegno a Trump è stato un errore, perché il marchio Tesla attirava un pubblico progressista, istruito e benestante, che si è sentito tradito. Potrebbe tentare di riconquistare quella fascia di elettori socialmente liberali ed economicamente conservatori, ma la sua immagine è molto danneggiata. In aggiunta, non è popolare neppure tra l’ala più radicale dei repubblicani, quella che alle Tesla preferisce i pickup».
E difatti, lo scorso aprile, la sconfitta in Wisconsin del giudice conservatore della Corte Suprema dello Stato Brad Schimel, sostenuto con milioni di dollari, conferma quanto sia scivolosa la popolarità di Musk tra l’elettorato trumpiano.
Finora il plebiscito si ferma su X, l’arena in cui lancia proclami per poi rimangiarseli spesso qualche ora dopo. Il 65% degli utenti (1,25 milioni) che ha partecipato al suo sondaggio ha detto sì all’America Party. Le priorità spaziano dal taglio del debito federale con un conservatorismo fiscale, al rafforzamento dell’esercito con l’intelligenza artificiale, e poi meno vincoli sull’energia, più incentivi alla natalità e difesa della libertà di parola. Programma embrionale che ha già attirato l’attenzione di diversi personaggi noti. Tra questi Andrew Yang, fondatore del Forward Party ed ex candidato alla presidenza. Anche Anthony Scaramucci, ex portavoce di Trump e poi sostenitore di Kamala Harris, ha manifestato interesse.
Il fattore “money” è sicuramente primario nell’esperimento politico di Musk. L’uomo più ricco del globo è stato uno dei principali finanziatori della campagna repubblicana nel 2024 con un’iniezione di almeno 250 milioni di dollari. Ma l’accesso a fondi smisurati non basterà a garantirgli successo in solitaria, secondo Hans Noel, politologo della Georgetown University. «Servono risorse per finanziare una campagna elettorale, certo, ma occorrono anche organizzazione, costanza e una base di sostenitori. Tutto questo non si crea dall’oggi al domani. E poi ci sono altre fonti di finanziamento su cui il Gop può contare».
Anche perché se mai volesse ottenere lo status di partito politico nazionale, America Party dovrà passare attraverso il vaglio della Federal Election Commission. Musk sottovaluta quanto sia difficile creare un terzo partito, perché sono richiesti enormi sforzi burocratici e sostanziose raccolte firme quasi impossibili in molti Stati.
I partiti minori non sono una novità. Negli Stati Uniti la galassia è ampia: Ballotpedia ne registra una cinquantina, tra cui i Libertari e i Verdi che continuano a proporre candidature nazionali. «Il problema è che durano poco – spiega Eric Lawrence, preside del Dipartimento di Scienze Politiche presso la George Washington University – Il sistema elettorale li penalizza. Di conseguenza, molti elettori preferiscono sostenere uno dei due grandi partiti per non sprecare il proprio voto, anche se esiste un’alternativa più vicina alle loro idee. Questa dinamica scoraggia la crescita di formazioni minori».
Non conquistano la Casa Bianca (Musk personalmente, sudafricano di nascita, non potrebbe ambire alla presidenza anche per vincoli costituzionali), ma riescono quasi sempre a infastidire il duopolio. Tra i precedenti più clamorosi c’è la corsa di Ross Perot, il miliardario texano che nel 1992 si lanciò nell’arena con il suo Reform Party e finì per sfiorare il 19% dei voti, abbastanza da far imputare a lui la sconfitta di George H.W. Bush e la vittoria di Bill Clinton. Otto anni più tardi fu Ralph Nader, paladino ambientalista, a raccogliere oltre 2 milioni di preferenze con il Partito Verde, guadagnandosi l’odio dei democratici che lo accusarono di aver sottratto voti decisivi ad Al Gore e consegnato la Casa Bianca a George W. Bush. Stessa storia nel 2016, quando la verde Jill Stein venne additata come la mina vagante che contribuì a far perdere Hillary Clinton contro Trump. Il prossimo a far tremare il sistema potrebbe essere proprio Elon-Epaminonda.
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