Nel 1992, con la vittoria dell’allora 46enne Bill Clinton, cominciò la stagione dei democratici e dei progressisti anni ’90, la terza via: negli Stati Uniti Clinton, in Inghilterra Tony Blair, in Italia il centro-sinistra formato Ulivo, embrione del futuro Partito democratico. In questi giorni Francesco Rutelli è stato invitato a Philadelphia, alla Convention democratica chiamata a incoronare come candidata alla Casa Bianca un’altra Clinton, Hillary. Da sindaco di Roma l’ex leader della Margherita ricevette in Campidoglio la coppia presidenziale nel 1994: «Sotto il palco c’erano dodici romani registrati nei giorni della liberazione di Roma come Americo o America. Il filo di un destino comune tra Usa e Europa e Italia, oggi a rischio». Rutelli, di recente inserito nell’advisory board dell’Airbnb, il colosso mondiale dell’home sharing, una second life di viaggi all’estero a occuparsi di cultura e ambiente, racconta la nuova stagione dei democratici americani, nel mese degli attentati terroristici e della post-Brexit.
Francesco Rutelli, visto dalla convention di Philadelphia, cos’è cambiato da Bill a Hillary Clinton?
«È cambiato tutto. E riuscire a intercettare una domanda di rinnovamento radicale che sale dalla società americana è il punto più critico della campagna elettorale di Hillary Clinton. Sarà lunga e fortemente condizionata da fattori esterni. Gli anni Novanta appartengono a un’altra era, dal punto di vista politico: la caduta del muro di Berlino, la crescita del commercio mondiale, la graduale uscita dalla povertà per la Cina e per gli altri Paesi asiatici che per noi europei significava in quel periodo importazione di beni a basso prezzo. E ancora: fine dell’inflazione, aumento dell’occupazione, l’innovazione tecnologica spinta da Clinton e dal suo vice Al Gore di cui allora vedevamo solo il valore positivo. L’immigrazione che quando lasciai il Campidoglio, nel 2001, era al 2,5 per cento della popolazione, una cifra assolutamente gestibile. In sintesi: il trionfo della democrazia in politica e del mercato in economia. Che portò qualcuno a parlare di fine della storia. In modo spudorato».
Si avverte la sua nostalgia per quella stagione felice. Quando si spezzò l’incantesimo?
«All’inizio del decennio Duemila apparve chiaro che la globalizzazione non era la green card del progresso indefinito. La moneta unica europea presentava già qualche incognita. L’allargamento della Ue ai Paesi dell’Est fu imprudente nella sua rapidità. E poi arrivò l’11 settembre. E la guerra in Iraq. A questo proposito ho alcuni ricordi. Nel 2003, l’anno dell’intervento occidentale, incontrai papa Giovanni Paolo II con cui avevo un forte rapporto personale. Era già malato, mi afferrò l’avambraccio con forza e mi disse: “Non si rendono conto, torneranno le guerre di religione”. Il cardinale Roger Etchegaray, mio amico, mi regalò una sua foto con Saddam Hussein il giorno prima dell’inizio dei bombardamenti in Iraq. Era stato inviato da papa Wojtyla in missione di pace, al pari del cardinale Pio Laghi spedito a Washington da Bush senior. La Chiesa si rendeva conto che la pretesa di esportare la democrazia in Mesopotamia con trecentomila soldati era un atto di superbia ideologica e velleitaria dell’Occidente guidato da Bush. Un errore drammatico. Non è corretto attribuire la nascita dell’Is alla guerra in Iraq ma senza dubbio quello fu il detonatore».
Un errore condiviso dal premier laburista Blair che per lei, all’epoca leader della Margherita, e per la leadership Ds del centrosinistra italiano, era il punto di riferimento politico.
«Criticare quella scelta è inevitabile e fondato. Senza la partnership inglese, e di un premier laburista, l’intervento in Iraq per Bush non sarebbe stato possibile. Ma non lo dico oggi. Io e Massimo D’Alema incontrammo Blair il 21 febbraio 2003, all’indomani della grande manifestazione per la pace, eravamo a villa Wolkonsky, residenza dell’ambasciatore britannico in Italia. Fu un colloquio amichevole ma il dissenso sulla guerra fu totale. Così come ho segnalato per tempo l’errore dell’Iraq non mi unisco oggi a chi condanna in blocco la politica di Blair. Ha riportato la democrazia diffusa calpestata dalla Thatcher. Le innovazioni e le liberalizzazioni in economia. E l’interdipendenza in politica estera».
Un pezzo di elettorato del Labour inglese non la pensa così.
«Se ci fosse stato Blair alla leadership dei laburisti non avremmo avuto la Brexit. Questo dobbiamo dirlo, anzi, gridarlo. La debolezza di Jeremy Corbyn e il suo sottrarsi alla competizione sono tra le cause di un voto per cui tutta l’Europa pagherà un prezzo elevato».
Eppure l’allontanamento della sinistra dai ceti popolari comincia in quegli anni Novanta che lei sta magnificando. Elettorato periferico, marginalizzato, che non viene più rappresentato da nessuno. Terreno di caccia ideali per i partiti e per le formazioni populiste. È la grande questione della campagna elettorale americana, con il ceto medio bianco che vota per Donald Trump.
«Vero. La strada che per facilità di analisi chiamiamo populismo esprime insieme insoddisfazione verso le élite e perdita di senso verso la cosa pubblica. Io appartengo a una generazione che aveva una spinta all’impegno pubblico, la politica era una direzione di marcia individuale e collettiva. E sono stato eletto con ogni sistema elettorale: le preferenze, il collegio uninominale, l’elezione diretta del sindaco. Sempre votato da qualcuno che mi chiedeva conto di quello che avevo detto o fatto. Oggi la mancanza di senso e di identità è il punto più drammatico. La politica si è trasferita sui social, senza corpi intermedi, contatti fisici, senza eletti, tutti nominati. Non abbiamo pensatori strategici, né persone di coraggio (penso al Pannella degli anni ’70) strumenti per governare le ondate globali, finanza in testa. Prevalgono le “snap leaderhsip”, uno schioccare le dita e avanti un altro. E con la crisi delle classi dirigenti arrivano le risposte di ribellione».
Se vince Hillary Clinton che succede?
«Rimarrà un sistema multilaterale, con attenzione verso l’Europa, anche se ormai l’agenda americana è spostata verso il Pacifico. La Clinton si gioca tutto sul voto delle grandi minoranze, bersaglio dell’aggressività di Trump».
E se dovesse vincere Trump? È lui il volto della rivolta contro le élite che ha già provocato la vittoria della Brexit?
«L’isolazionismo americano accentuerà la divisione europea. Gli Stati Uniti sono chiamati a scegliere tra una persona che non si può soltanto rappresentare come esponente di una dinastia ma è la più preparata a governare la prima potenza mondiale in un momento incredibilmente difficile e chi pensa di affrontare i problemi del mondo a colpi di tweet, in modo flamboyant. Per la Clinton le condizioni per vincere sono ripristinare l’unità del partito democratico, raccogliere lo sconcerto di chi pensa che Trump sia unfit, riunire in modo organizzato le diversità americane. Sapendo che in caso di vittoria della Clinton non ci sarà più il partito repubblicano di prima. Ma se dovesse vincere Trump scomparirà l’attuale partito democratico».
Torneranno gli anni Novanta della terza via e dell’Ulivo mondiale?
«Sono irripetibili».
Che lezione arriva per il Partito democratico e per Matteo Renzi?
«Renzi merita sostegno, e si gioca tutto, su quanto l’Italia riuscirà a contare in Europa. L’Italia è una media potenza che se fallisce l’Unione europea rischia di diventare un Paese trascurabile. Serve una grande strategia, un doppio patriottismo, italiano e europeo. E un gruppo dirigente all’altezza: oggi, mi sembra, Renzi non ce l’ha e questo è un problema. E invece deve dimostrare di saper coinvolgere persone nuove, autorevoli, che discutano. Si deve mobilitare il meglio dell’Italia. Ed è una questione che va ben al di là del referendum sulla Costituzione».
Attualità
1 agosto, 2016L’ex sindaco racconta la Convention democratica. ?Tra amarcord degli anni 90. La speranza di Hillary. E un consiglio a Renzi
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