Dopo mesi di ritardo, il governo vuol far decollare la riforma dei sussidi. Che saranno tolti a chi  non accetta un posto. Ma non sarà facile. Perché  il sistema attuale fa la fortuna di chi usa i soliti trucchetti

Cosa deve fare un cittadino tedesco per ricevere il sussidio di disoccupazione? Innanzitutto iscriversi alla Bundesagentur für Arbeit, l’agenzia federale per il lavoro. Poi presentarsi ai colloqui, frequentare i corsi che gli vengono proposti e accettare eventuali offerte di lavoro. Se per qualche motivo non fa una di queste cose, il sussidio gli viene ridotto e infine cancellato. Come funziona in Italia? Semplice: il disoccupato deve solo iscriversi a quella che un tempo si chiamava lista di collocamento. Per intascare il sussidio, che oggi vale anche per i lavoratori precari grazie alla riforma dell’ex ministro Elsa Fornero, non è necessario presentarsi agli incontri, frequentare corsi, mandare in giro il curriculum né accettare eventuali offerte di impiego.

La Germania è uno dei Paesi europei più simili all’Italia in termini economici. Forte industria manifatturiera, esportazioni predominanti, differenze regionali marcate. Il confronto, però, potrebbe essere allargato a quasi tutte le nazioni del Vecchio Continente, perché l’Italia è una delle pochissime a non vincolare di fatto la concessione del sussidio all’attivismo del disoccupato. Di fatto, dicevamo, visto che in teoria il vincolo c’è. Lo prevedeva la Legge Fornero e lo stabilisce a condizioni attenuate anche il Jobs Act. Solo che, nella pratica, quasi tutti se ne infischiano. Il risultato è che in Germania il disoccupato non può usare due trucchi molto amati nel Belpaese. Uno è quello di prendere il sussidio e andare a lavorare all’estero, con il vantaggio di incassare una paga doppia. L’altro prevede di intascarsi l’assegno e faticare in nero, anche qui raddoppiando l’incasso. I tecnici traducono così l’abisso: Roma finora ha puntato sulle politiche passive, Berlino e tante altre nazioni hanno invece investito sulle quelle attive.
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Premessa. Se l’economia arranca, nessuno stratagemma può risollevare in modo determinante l’occupazione. Nonostante la recessione, tuttavia, qualcosa per migliorare la situazione si può fare. Lo dimostrano i casi dei nostri vicini. E lo impongono alcuni numeri. Il tasso di disoccupazione generale in Italia è all’11,6 per cento: si tratta di circa 3 milioni di cittadini, di cui oltre la metà senza impiego da oltre un anno. La percentuale dei disoccupati non comprende però tutte le persone senza lavoro. Non sono conteggiati, per esempio, coloro che per motivi vari non si iscrivono alle liste di collocamento. Il numerino da guardare è dunque quello degli occupati. E di questo non possiamo proprio andare fieri: è il 56,3 per cento della popolazione in età da lavoro, uno dei livelli più bassi d’Europa.

Creare occupazione è sempre stato il cruccio principale di Matteo Renzi. Non a caso una delle prime norme approvate è stata quella del Jobs Act, che ha reso meno vincolanti le nuove assunzioni (licenziamento senza giusta causa per i primi tre anni) concedendo incentivi economici alle imprese che aumentano il numero di dipendenti. La riforma, però, doveva essere molto più estesa rispetto a quella che conosciamo oggi. Dei vari punti elencati da Renzi sul suo sito personale l’8 gennaio del 2014, due mesi prima di diventare premier, al momento ne mancano soprattutto due. Uno riguarda l’elezione dei rappresentanti sindacali nei consigli d’amministrazione delle grandi imprese. L’altro è in corso d’opera. Si tratta dell’Anpal, acronimo di Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro: l’equivalente nostrano della tedesca Bundesagentur für Arbeit. Insomma, la struttura con cui il governo vorrebbe dare un taglio netto all’assistenzialismo di Stato.

Alcuni credono infatti che buona parte della disoccupazione italiana, oltre che dalla crisi, dipenda proprio dall’aver scelto di puntare sui sussidi a pioggia, senza chiedere nulla in cambio ai beneficiari. Lo sostengono ad esempio Romano Benini e Maurizio Sorcioni, due esperti della materia, nel libro appena pubblicato “Il fattore umano - Perché è il lavoro che fa l’economia e non il contrario” (Donzelli Editore). E lo suggerisce il grafico a pagina 50, che mette in relazione posti di lavoro vacanti e tasso di disoccupazione. A rigor di logica, se aumentano i disoccupati diminuiscono in modo inversamente proporzionale i posti di lavoro disponibili. Invece negli ultimi dieci anni in Italia non è andata sempre così. Motivo? Evidentemente non riusciamo a formare persone che abbiano le competenze richieste dal mercato.

Eppure, di soldi per aiutare i disoccupati finora ne sono stati spesi parecchi. Secondo gli ultimi dati di Eurostat, l’agenzia statistica dell’Unione europea, l’Italia investe nelle politiche del lavoro l’1,7 per cento del prodotto interno lordo. Più della Germania, che ha un mercato del lavoro in piena salute. Ma la stragrande maggioranza dei fondi ci serve per pagare sussidi di inattività, che sono ovviamente schizzati verso l’alto durante la crisi, mentre solo una minima fetta viene usata per reinserire i disoccupati nel mercato. Traduzione numerica: nel 2014, ultimo anno per cui sono disponibili i confronti internazionali, abbiamo speso 5,5 miliardi in politiche attive e 24 miliardi tra sussidi e aiuti per i prepensionamenti.


Esempio tedesco

Va detto, per essere precisi, che non tutti i senza lavoro sono uguali. Ci sono ad esempio gli stagionali del turismo, dell’agricoltura o gli insegnanti precari: qualche milione di persone che ogni anno resta a casa per un periodo predefinito, una manciata di mesi al massimo, riscuotendo l’assegno dall’Inps. Per loro, che una professione ce l’hanno anche se magari non riconosciuta come vorrebbero, la riqualificazione non avrebbe senso, visto che tornano puntualmente a sgobbare sui banchi di scuola o sulle spiagge. Casi specifici a parte, però, il problema è che gli investimenti italiani nelle politiche attive sono bassissimi rispetto ai nostri vicini europei. E sono addirittura diminuiti durante la crisi: dal 2007 al 2011 la spesa per aiutare i disoccupati a ritrovare un lavoro è calata del 15,2 per cento, mentre Paesi come Francia, Germania e Regno Unito la incrementavano.

Ora il governo Renzi dice di essere intenzionato a invertire la rotta. Il sistema delle politiche attive, per quello che prevede la parte del Jobs Act rimasta finora inattuata, si basa su due principi che potrebbero presto diventare realtà. Il primo è la condizionalità. Significa che il disoccupato deve presentarsi ai colloqui con gli impiegati del centro per l’impiego, frequentare corsi di formazione e accettare lavori coerenti con il proprio profilo professionale. Altrimenti, il sussidio gli viene ridotto gradualmente fino alla cancellazione. Il secondo principio è quello della remunerazione a risultato: riguarda le strutture che già oggi offrono, o dovrebbero offrire, un aiuto ai disoccupati. Si tratta dei centri per l’impiego (pubblici) e delle agenzie per il lavoro (private). L’Anpal prevede di metterle in competizione fra loro, premiando con i fondi pubblici europei solo quelle che riusciranno davvero a rimettere sul mercato i disoccupati. Insomma, concorrenza e meritocrazia.

Già oggi, in realtà, in Italia c’è chi segue questi principi. Solo che nessuno li mette in pratica entrambi contemporaneamente. La Provincia autonoma di Trento è l’unica a vincolare l’erogazione del sussidio all’attivismo del disoccupato, la cosiddetta condizionalità (vedi articolo a pagina 47). Alcune Regioni hanno invece creato dei sistemi basati sul principio della remunerazione a risultato, in cui circa l’80 per cento dei fondi comunitari viene incassato solo quando il disoccupato trova lavoro. «Lo ha fatto per prima la Lombardia e da qualche tempo anche il Lazio», spiega Stefano Zanaboni, titolare di We, una piccola società privata del settore. Zanaboni opera solo nel Lazio e dice che delle 160 persone prese in carico dalla sua agenzia da inizio anno è riuscito a rimetterne al lavoro 39, di cui la maggioranza con contratti a tempo indeterminato.

Uno di loro è Paolo Nappi, 58 anni, romano, che fino al 2014 aggiustava fotocopiatrici per una filiale della Canon. «Appena ho perso il lavoro», racconta, «ho iniziato a cercarne un altro: stavo ogni giorno 5-6 ore a inviare domande ma per un anno e mezzo niente da fare. Poi, a gennaio del 2016, ho iniziato il percorso con l’agenzia We. Mi hanno aiutato a migliorare il curriculum, dato consigli per fare bella figura ai colloqui, hanno chiamato le aziende a cui mi proponevo spiegando quali agevolazioni fiscali avrebbero avuto prendendomi». A inizio estate Nappi è stato assunto a tempo indeterminato, sempre con la mansione di tecnico delle fotocopiatrici. «Con l’agenzia non ho speso un euro e ho ricevuto un importante aiuto per tornare sul mercato», assicura. Un successo anche per la We, che si è garantita il contributo pubblico. Cifra variabile a seconda del tipo di candidato, ma che in genere va da un minimo di 800 euro per i casi più facili a un massimo di 4.000 euro per i più complicati. «Il problema è che ogni Regione decide se, come e quando dare questi soldi. Per questo in tante zone non operiamo, mentre ci siamo concentrati soprattutto nelle aree dove le cose funzionano meglio», dice Fabio Costantini, responsabile delle politiche attive per Ranstad, la multinazionale olandese nota soprattutto per le agenzie interinali.


Il presidente c’è, gli addetti no

Il fatto che ogni Regione faccia di testa sua ha un motivo preciso. Il titolo V della Costituzione attualmente prevede infatti che la legislazione sulle politiche attive sia di competenza, oltre che dello Stato, anche delle Regioni. E così ci sono quelle che applicano il principio della remunerazione a risultato e quelle che si rifiutano. Colpisce poi il fatto che nessuno, a parte la provincia di Trento, vincoli il pagamento del sussidio all’attivazione del disoccupato. Già, perché in teoria dovrebbe essere così dappertutto: se il dipendente del centro per l’impiego si accorge che il disoccupato non si dà da fare, dovrebbe revocargli il sussidio. Invece non succede. Il motivo lo spiega ancora Benini, che dirige il master in Management delle politiche per il lavoro alla Link University di Roma e lavora come consulente per diverse Regioni: «L’impiegato del centro per l’impiego non si prende la responsabilità di togliere il sussidio a un suo concittadino, magari a uno che conosce da una vita. Anche perché, non esistendo ancora un sistema informatico che gli consenta di avere sott’occhio tutte le offerte di lavoro disponibili, lo stesso impiegato non è in grado di far bene il suo mestiere, cioè di trovare una nuova occupazione all’utente. Se a questo aggiungiamo il fatto che in Italia abbiamo un operatore ogni 220 disoccupati, mentre in Europa la media è di 1 su 90, ci rendiamo facilmente conto del perché le politiche attive finora non sono decollate».
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Riuscirà dunque l’Anpal a risolvere tutti questi problemi? L’Agenzia guidata da Maurizio Del Conte ufficialmente è attiva dallo scorso 22 giugno. Ufficialmente, visto che in realtà è ancora tutto fermo. Il primo consiglio d’amministrazione si è riunito a metà luglio, ma i dipendenti che dovranno lavorarci devono ancora essere individuati. «Speriamo che, dopo quasi un anno di attesa, l’Anpal parta davvero», è l’auspicio di Rosario Rasizza, amministratore delegato di Openjobmetis, uno dei gruppi privati che punta ad aumentare il proprio ruolo nel business dei disoccupati. In attesa che si sbrogli la matassa burocratica, resta però un punto interrogativo. Come può esistere un unico modello delle politiche attive del lavoro se ogni Regione può fare a modo suo? La riforma costituzionale porterebbe sotto il controllo unico dello Stato le politiche attive. Ma c’è l’incognita del referendum. Anche per questo la rivoluzione promessa dal Jobs Act rischia di rimanere incompiuta. Staccando ancor di più l’Italia dal resto d’Europa.

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