L'autrice del “Corpo delle donne” è d'accordo con la decisione di alcuni comuni francesi di impedire l'accesso alla spiaggia con il costume integrale. Lei l'ha indossato. E dice: è una gabbia. Per questo, insiste, «la paura di sembrare anti-islamici non deve avere la meglio sul nostro femminismo». Usando anche la legge

Lorella Zanardo si è messa nei panni di una musulmana. Letteralmente. Ha indossato in spiaggia il burkini, il controverso costume integrale tanto amato dai fondamentalisti islamici. E ha capito che no, non va per niente bene. L'attivista dei diritti delle donne, famosa per i suoi studi sulla rappresentazione mediatica del corpo femminile, spiega in questa intervista perché secondo lei è giusto vietarlo.

In Francia il Comune di Cannes ha bandito il burkini perché è una «ostentazione dell'appartenenza religiosa». Lo stesso ha fatto un paese della Corsica dopo una rissa in spiaggia. Lei cosa ne pensa?
«Come femminista italiana e attivista dei diritti delle donne penso che sia corretto vietare l'uso del burkini. Lo dico con circospezione, perché sono casi complicati e siamo davanti a qualcosa di nuovo per la nostra società. Ovviamente il velo è diverso, è un segno di modestia per chi lo porta. Ma il burkini è un capo d'abbigliamento che, come il burqa e il niqab, cela in modo pesante il corpo, e soprattutto posso dire che indossarlo non è frutto di una libera scelta delle donne»

Il Ministro degli Interni Angelino Alfano ha detto che vietarlo «sarebbe una provocazione potenzialmente capace di attirare attentati».
«Rileggo l'articolo 3 della nostra Costituzione e chiedo al Ministro dell'Interno di riflettere su cosa significhi che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale indipendentemente dal sesso. Non una provocazione quindi, ma un invito a rispettare i diritti delle donne tanto faticosamente conquistati. Diritti di cui possono godere anche le donne dell'Islam che giungono da noi»

Non tutte le femministe saranno d'accordo con lei.
«È vero. Voglio aggiungere che esprimo questa posizione nel profondo rispetto per le donne musulmane e per il mondo arabo. Ho girato un documentario in Iraq, e vengo spesso invitata nei Paesi arabi a convegni sulla questione femminile. Sono temi con cui discuto molto con le mie amiche egiziane, ad esempio. Ma il mio discorso non è “intellettuale”, non è teorico. Il mio femminismo è molto pratico. Infatti parlo del burkini dopo averlo provato»

In spiaggia?
«Sì, in Turchia. E posso assicurarvi che a 40 gradi, sulla sabbia, è davvero intollerabile. È una tuta che ricorda quella dei sommozzatori, ma, perché non corra il rischio di fasciare troppo il corpo e renderlo a suo modo sensuale, è un po' larga e ha anche una mantellina. Quando esci dall'acqua diventa pesantissimo, e infatti molte si fanno aiutare dagli uomini perché potrebbe esserci il rischio di annegare»

Quindi qui non può valere, come dire, che “il corpo è mio e lo gestisco io”, che ognuno ha il diritto di vestirsi come vuole?
«Conosco donne che sostengono di indossarlo come libera scelta. Ma in questi casi penso a quella volta che mia nonna, che è del 1910, mi ha detto: “Sai Lorella, noi ci tenevamo proprio a sposarci vergini”. Era davvero una loro libera scelta? Può darsi, ma come mai dopo la rivoluzione sessuale non è più stato così? Abbiamo scoperto che forse tanto libera non era. Dobbiamo avere rispetto degli usi e dei costumi di chi viene da un'altra cultura, ma dobbiamo mostrare alle nostre compagne immigrate i risultati delle nostre lotte, che un'altra società, più libera, è possibile, e che il burkini è una schiavitù»

Che cosa ci dice il burkini delle società in cui si è diffuso?
«Che sono società fortemente castranti verso la donna. Basta vedere quelle immagini commoventi delle ragazze che, appena il loro territorio viene liberato dall'occupazione di Daesh, si sbarazzano come prima cosa di quelle palandrane terrificanti. Penso alle parole della femminista egiziana Mona Eltahawy, che a 15 decise di mettersi l'hijab perché voleva dare all'uomo un messaggio di modestia, ma poi dopo 4 anni se lo tolse, perché capì che il problema non era lei, ma era l'uomo, lo sguardo dell'uomo. «Volevo sentire il vento nei capelli», disse. È una battaglia decisiva, e dobbiamo fare attenzione, perché anche nella laica Turchia vediamo pericolosi passi all'indietro»
Rio 2016

Si è parlato molto di quella fotografia scattata alle Olimpiadi di Rio durante il torneo di beach volley. Da una parte una ragazza egiziana in hijab, dall'altra una tedesca in costume sexy. Lei cosa ha pensato? Che eravamo di fronte a un'identica sottomissione, come ha fatto notare qualcuno?
«Sull'hijab ho pensato a mia figlia, che fa pallavolo, e mi sono detta che non si può giocare bene con quel peso. Dall'altra parte è evidente che quei micro-costumi occidentali sono fatti apposta perché ogni tanto, ops, scoprano un pezzo di sedere. Forse gli uomini giocano in perizoma e mostrano un pezzo di chiappa? No, vanno in pantaloncini. Sui siti leggo infatti commenti di utenti maschi che dicono: “Seguo il beach volley femminile per guardare i culi delle ragazze”. Dunque, da una parte un corpo camuffato per non eccitare, e dall'altra uno che deve vendere e eccitare. Detto questo, non è assolutamente la stessa sottomissione. L'egiziana infatti non ha scelta, l'occidentale potrebbe anche rifiutarsi e probabilmente non lo fa perché le avranno spiegato che il loro sport ci guadagna in termini di pubblicità e contratti»

In Francia però il dibattito su questi temi c'è. In Italia non le sembra che finora sia mancato, sia in politica sia nel mondo intellettuale? Che, visto che siamo in tema di spiagge, mettiamo la testa sotto la sabbia?
«In Italia il dibattito è azzerato dalla paura di sembrare razzisti, di alimentare la propaganda di Salvini. Ma io sono di sinistra, sono femminista e per le frontiere aperte, eppure difendo il diritto delle musulmane di liberarsi delle loro gabbie. L'immigrazione dovrebbe essere un'apertura alla cultura altrui, alla conoscenza dei diritti, degli usi e dei costumi degli altri popoli. Quando viaggio nel mondo arabo, anche da sola, mi vesto con semplicità, con un velo leggero, un jeans o un pantalone. E anche le donne arabe potrebbero avere lo stesso rispetto per le nostre lotte, quando vivono in Italia. Invece a Milano si vedono sempre più queste scene tristissime in tram, con donne bardatissime e sudate con accanto i loro uomini tutti freschi, in bermuda, a gambe aperte. Ci sta bene così? A noi femministe sta bene così?»

Che cosa propone?
«Anzitutto non dobbiamo far sì che la paura di sembrare anti-islamici abbia la meglio sul nostro femminismo, sulla battaglia per i diritti delle donne. E poi, come in Nord Europa, non dovremmo fornire solo corsi di lingua agli immigrati. Ma anche lezioni sui nostri usi e costumi. Si parli di sesso, di omosessualità, di diritti».

È stata un'estate ricca di polemiche sul corpo delle donne. Soprattutto in Italia, dove si è parlato anche di “atlete cicciottelle”, ad esempio. Che cosa significa?
«Ci ricorda che noi donne siamo ancora in cammino. Che abbiamo sempre addosso lo sguardo dell'uomo. E che dobbiamo continuare la nostra battaglia per far capire al mondo che i corpi delle donne non hanno nulla di sbagliato»