Le autorità egiziane hanno provato in ogni modo a insabbiare il caso. Ma ora tutte le piste confermano il coinvolgimento delle forze dell’ordine

A un anno dal brutale omicidio di Giulio Regeni tutti i filoni d’indagine portano in un’unica direzione: il movente è chiaro, l’ambito dell’area dove cercare i responsabili ben a fuoco.

Dal momento del ritrovamento del corpo oltraggiato, la procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone invia un team investigativo composto da Ros e Sco che in 48 ore raggiunge il Cairo. Giulio è all’obitorio e la situazione è fin da subito complessa: la collaborazione della polizia egiziana è solo formale, inutile se non dannosa, mentre è molto efficiente la macchina del fango: Giulio morto per un incidente stradale, perché forse era gay o drogato. Nemmeno l’ambasciata ?è al sicuro: non si può parlare, all’interno forse ci sono delle microspie.

VIDEO: L'INCONTRO DI GIULIO CON ABDALLAH, ECCO COSA SI SONO DETTI

[[ge:rep-locali:espresso:285256847]]
Il suo corpo racconta al medico legale italiano tagli, abrasioni, lettere scolpite sulla carne. È stato straziato dalle torture. Il 24 marzo, invece, per gli egiziani è tutto risolto: i colpevoli sono i membri di una banda criminale «specializzata nel fingersi agenti di polizia, nel sequestrare cittadini stranieri e rubare loro i soldi». È certo che sono loro: subito dopo la sparatoria, a casa di un parente del capo della banda i poliziotti trovano proprio il passaporto, due tesserini universitari e il bancomat di Giulio. Di fronte a quella cruenta messa in scena i nostri investigatori fanno rientro. ?Il sostituto Sergio Colaiocco titolare del fascicolo avanza richieste, invia rogatorie, ma nulla. Poi si ottiene di fissare un incontro a Roma. È aprile. Sarà il primo di cinque vertici. Due giorni di colloqui che si rivelano un sostanziale fallimento: le autorità egiziane si presentano con qualche foglio di elementi già noti, non consegnano i tabulati di alcune utenze, il traffico delle celle telefoniche, ?i filmati delle telecamere della metro, gli elementi indispensabili per fare le indagini. Si appellano alla privacy ?e continuano a sostenere la tesi della banda criminale. Una situazione che porta il governo a disporre il richiamo per consultazioni dell’ambasciatore ?al Cairo Maurizio Massari.

All’incontro di Roma però è presente anche la Sicurezza Nazionale che balza in piedi davanti ai collegamenti che i nostri investigatori hanno fatto con i pochi dati in loro possesso, raccolti autonomamente. ?La banda è un depistaggio, a trovare ?i documenti sono state le forze di sicurezza che sono quindi coinvolte. Un vertice fallimentare, ma anche ?un punto di svolta: da quel momento l’interlocuzione sarà soltanto tra procure. I magistrati si rivedono ?a maggio e poi settembre quando ?il procuratore Nabil Sadek ammette ?il ruolo di Abdallah e, per la prima volta, che Regeni era stato indagato dalla polizia qualche settimana prima di essere ucciso. Abdallah viene sentito dai magistrati egiziani l’ultima volta ?il 10 maggio, ma questi non comunicano i dati alla procura di Roma prima di settembre. Un’intera estate per essere pronti a reggere quella verità. Ci si chiede se la procura del Cairo conosca da tempo la verità, ?i nomi dei responsabili e non ce li stia dando a pezzettini.

[[ge:espresso:internazionale:1.293719:article:https://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/01/19/news/giulio-regeni-un-anno-senza-verita-1.293719]]
La ricerca, ?i rapporti di Giulio con il sindacato, ?il tradimento, sono gli elementi su cui da subito si sono concentrati i nostri investigatori. Per questo il pm Colaiocco lo scorso giugno è andato anche a Cambridge pur di parlare ?con Maha Abdelrahman, la supervisor di Regeni nella tesi di dottorato. ?Punto centrale la scelta di applicare ?il metodo Par (Participatory action research) che prevede la partecipazione diretta alle dinamiche interne delle organizzazioni da studiare. A nulla è valso attenderla ?per più di un giorno negli uffici della polizia e inviarle le domande in anticipo, compresa quella se il 14 gennaio durante il loro incontro in un caffè del Cairo avesse letto i 10 report in cui Giulio annotava i suoi incontri con i venditori. Per la procura di Roma un atteggiamento inspiegabile. Intanto anche la rogatoria internazionale per ascoltare colleghi e docenti universitari che coordinavano la ricerca non ha ancora avuto risposta.

Le indagini procedono ?nella giusta direzione, ma a rilento. Colaiocco, che a novembre vola al Cairo per recuperare i documenti di Giulio e consegnarli alla famiglia, continua con determinazione e pazienza a tenere il fiato sul collo ai magistrati egiziani. Chiede verità. La chiedono con tenacia e dignità Paola ?e Claudio, i genitori di Giulio. ?Il procuratore Sadek ha voluto incontrarli poco prima dell’ultimo vertice ai primi di dicembre a Roma. Cinquanta minuti di incontro in cui hanno ribadito: «Grazie per quello che state facendo. Ma sia chiaro che ci interessa tutta la catena. Non soltanto alcuni degli anelli. E non ci basta sapere chi: vogliamo capire perché Giulio è stato ucciso».

Così il ruolo della polizia nell’omicidio a poco a poco trova conferma. Al centro ci sono gli ufficiali identificati, quelli a cui Abdallah forniva informazioni, quelli che hanno effettuato accertamenti sul giovane e poi quelli coinvolti nell’uccisione della banda scelta come comodo capro espiatorio. La procura generale del Cairo ha iscritto due di loro nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio: il che significa ammettere il depistaggio e avvicinarsi ai mandanti ?e a chi aveva in mano i documenti ?di Giulio. Occorrerà incrociare i dati dei tabulati delle forze della Sicurezza Nazionale in contatto con Abdallah, accertare i rapporti tra i poliziotti, sapere dov’erano tra il 25 gennaio ?e il 3 febbraio. Individuare le singole responsabilità. Per gli inquirenti un anno fa non era affatto scontato che ?si arrivasse ad ammettere l’idea che gli apparati di un regime avessero ucciso e torturato Giulio. Per quanto, a fatica la verità si avvicina.