Aldo Biasi, presidente di una delle più importanti agenzie di comunicazione italiane, interviene sugli stereotipi di genere nelle réclame: «La pubblicità segue l'evoluzione della società, non la provoca. E poi c'è il problema che non abbiamo un albo, spesso c'è gente che si improvvisa»
Madre amorevole, casalinga efficiente o maniaca dello shopping. Oppure provocante seduttrice, in pose volgari corredate da frasi allusive. L'immagine femminile nella pubblicità sembra spesso ricalcare stereotipi di genere duri a morire. Una tendenza che negli ultimi anni ha portato alla nascita di associazioni e
gruppi di denuncia sui social. Ma cosa ne pensano gli addetti ai lavori?
Aldo Biasi, a capo di un'agenzia pubblicitaria che cura l'immagine di grandi aziende nazionali, spiega all'Espresso: «Ci sono molti esempi di pubblicità volgare e offensiva. È vero che questo sessismo in altri paesi c'è molto meno. L'Italia è diversa, non abbiamo certo il
sense of humor britannico. Ci colpiscono cose un po' più “caricate” e quindi più facilmente cadiamo in volgarità o provocazioni inutili. Appartiene un po' alla nostra cultura e dovremmo liberarcene. Ma sono casi minoritari».
Però continua a succedere. Perché?«Innanzitutto voglio dire che la pubblicità fa questi errori ma non è certo la sola. Succede lo stesso in altri ambiti della comunicazione e nello spettacolo. Tra l'altro quello pubblicitario è il settore che si è dato le regole interne più severe, perché è quello più “palese”, rispetto ad altri strumenti di comunicazione che spesso sono meno riconoscibili. Il vero problema è che la pubblicità non ha un albo, chiunque può improvvisarsi pubblicitario, magari per una piccola azienda. E l'Italia è piena di medie e piccole imprese che a volte accedono alla comunicazione in modo un po' naif. L'organismo di autodisciplina funziona molto bene tra i professionisti, che nella stragrande maggioranza dei casi sono responsabili e attenti, ma non riesce a controllare tutte le realtà sparse sul territorio».
Non c'è poca attenzione per questi temi?«Non credo. Le aziende serie sono molto attente. È importante tenere a mente che l'obiettivo del pubblicitario è quello di dare un'immagine positiva del prodotto, dando un'impressione favorevole al pubblico. L'ultima cosa che vogliamo è attirarci critiche. E poi ci sono molti casi in cui non si può fare a meno di usare il corpo della donna, come quando, per esempio, si vuole reclamizzare l'intimo femminile».
In certe pubblicità i bambini vogliono fare gli inventori e le bambine le modelle. Qualcuno vi accusa di diffondere stereotipi di genere«Per quanto riguarda i bambini penso che, in generale, siano usati troppo, anche per reclamizzare prodotti che c'entrano poco. Comunque le aziende individuano un target, una clientela di riferimento ed è a quella che poi il pubblicitario si rivolge. Se, ad esempio, le indagini di mercato dicono che alcuni prodotti sono ancora largamente usati dal pubblico femminile, la pubblicità si adegua. In passato l'intera società era sessista e la comunicazione lo era di conseguenza. Se negli spot sopravvivono ancora stereotipi e luoghi comuni è perché esistono anche nel mondo in cui viviamo. La pubblicità non può cambiare prima della società».
Quindi il problema non c'è«Diciamo che sono vent'anni che sento dire che la pubblicità è sessista. Anni fa era abbastanza vero, ma oggi non mi sembra, a parte quei casi di volgarità eclatante che non sono la norma. Anche perché la pubblicità si adegua al cambiamento del “politicamente corretto”».
Perché allora si punta il dito così spesso contro il vostro settore?«È facile attaccare la pubblicità, in Italia è sempre stata una specie di colpa sociale. Siamo ancora una paese con un forte fondamento cattolico: tutto ciò che è legato al commercio, al denaro, in fondo è legato al peccato. E la pubblicità è uno strumento del commercio».
Non pensa che la pubblicità dovrebbe porsi il problema di favorire un'evoluzione positiva dei costumi?«Un ruolo sociale la pubblicità ce l'ha già: è quello di aiutare le aziende a crescere creando lavoro, sviluppo e occupazione. Non si può addossare a noi anche il compito di educare le persone a comportamenti più corretti. Se proprio vogliamo mettere sotto accusa la pubblicità, allora dobbiamo fare lo stesso anche con altri ambiti della comunicazione, come i programmi televisivi e i film, di cui si parla molto meno e dove però il sessismo non manca».