È stato il colonialismo inglese a creare i problemi che esplodono oggi. Parola dello scrittore che ?studia l’anima del Paese

Ha analizzato la mente di mistici e sciamani. L’infanzia e le ricorrenti esplosioni di violenza nella società indiana. Ha scritto romanzi sul Mahatma Gandhi, sull’estasi, e ha ritradotto il Kamasutra. Nessuno conosce profondità e abissi della storia e spiritualità indiana meglio di Sudhir Kakar, uno dei più noti psicoanalisti e scrittori indiani. Che in questa intervista spiega gli elementi dell’identità indiana, i motivi dei conflitti religiosi in India o nei paesi buddisti. E le differenze tra le sofferenze del fondamentalista e l’odio del terrorista islamico.

Secondo Jawaharlal Nehru, premier indiano dal ’47 al ’64, esiste «uno spirito dell’India impresso in tutti i suoi figli». C’è ancora oggi uno spirito indiano?
«Sì, credo che ci sia ancora oggi una “identità indiana” che ci unisce malgrado le diverse regioni geografiche, i linguaggi o le etnie. Questa identità si basa su un immaginario collettivo formato dalle leggende e mitologie delle poesie epiche del Ramayana e Mahabharata. Su un’idea del corpo data dalla medicina Ayurveda che vede il mondo più in termini razionali che individuali. E sull’importanza della famiglia e casta nella formazione di un’identità personale che tende a subordinare l’individualismo».

Sono gli strettissimi legami familiari, come lei ha analizzato nel suo libro “Gli indiani “, il collante più forte dei mille volti, lingue e religioni della società indiana?
«Non c’è dubbio, se esiste un “ismo” che unisce la maggior parte degli indiani questo è certamente il predominante “familismo”».

Perché è importante la medicina ayurvedica?
«L’importanza di questa medicina sta nel fatto che il corpo viene visto intimamente connesso alla natura e in costante interscambio con l’ambiente. E non, come nell’immagine occidentale del corpo, come una fortezza incapsulata e connessa da un paio di ponti levatoi al mondo circostante».

Nel Paese del Kamasutra c’è oggi più libertà, edonismo o repressione della vita erotica?
«Dal punto di vista sessuale l’India è ancora oggi terribilmente conservatrice. Anche se nelle metropoli e nel ceto medio che si sta espandendo la vita sessuale sta cambiando e i meccanismi più repressivi si allentano».

Nel saggio “The colors of Violence” lei ha analizzato - a partire dai massacri ad Hyderabad del 1990 - i conflitti tra hindu e musulmani: quale meccanica porta a tanto odio?
«Ci sono due tipi di narrazioni dei conflitti fra hindu e musulmani. La versione più secolare ricorda come hindu e musulmani vissero in amicizia per oltre un secolo, sviluppando specie al Nord una civiltà comune e sino all’avvento del colonialismo britannico. Furono i colonialisti, con il loro “divide et impera”, a instillare nei due gruppi più consapevolezza delle loro identità e differenze religiose».

E l’altra “narrazione”?
«L’altra è più hindu-nazionalista e dice che gli hindu furono assoggettati per mille anni dai musulmani, oppressi con violenze indegne come la distruzione dei templi o costretti a mangiare carne di manzo. Queste due narrative oggi coesistono, la prima è dominante nei periodi più pacifici, ma la seconda emerge nelle fasi più turbolenti come quella che viviamo ora».

Per l’egittologo Jan Assmann le guerre religiose sono frutto dei monoteismi. Perché nell’India induista o nei Paesi buddisti c’è tanta violenza contro le minoranze religiose?
«Occorre distinguere fra guerre religiose e conflitti basati su identità religiose. Le prime guerre implicano direttamente elementi di fede, ma non sono questi i fattori che scatenano oggi i conflitti in India o in Myanmar e Sri Lanka buddisti. Questi conflitti sono prevalentemente economici, politici e sociali, e in essi la religione è usata solo come strumento di agitazione e mobilitazione della gente».

Comunque già durante la “spartizione” tra India e Pakistan almeno un milione di persone persero la vita: sta nell’incapacità di sopportare il Dio altrui la radice dell’odio?
«Ripeto, l’odio e le violenze non hanno nulla a che vedere con le questioni di un dio o di più divinità. Dipendono invece dalla storia delle repressioni sociali subite da una comunità o dall’altra e, più che dalla rispettiva religione, vengono scatenati dai dubbi e fomentati da bugie sulla lealtà, ad esempio, delle comunità musulmane: è questa la miscela che fa esplodere i conflitti più estremi e violenti. La cui radice quindi è di matrice storica e sociale, più antropologica direi che teologica».

Nel suo ultimo romanzo “Il Ministero della suprema felicità” Arundhati Roy paragona l’odierno nazionalismo hindu “al Paese con la svastica”: esagera?
«Sì, esagera. È errato argomentare con presunte analogie storiche perché il contesto è sempre diverso. I contesti dell’attuale nazionalismo hindu e della Germania nazista sono troppo differenti, così come gli indiani e i tedeschi di allora e le rispettive percezioni della realtà sociale».

Vede delle differenze tra il fondamentalismo hindu e l’estremismo e terrorismo islamico?
«Il fondamentalismo non è terrorismo. Il fondamentalismo è sia sofferenza che cura: è una visione religiosa che oscura le cause economiche, politiche e sociali della sofferenza, ad esempio musulmana, con una narrazione teologica che tende a riassumere in sé tutti i sintomi, le origini e anche i rimedi alla sofferenza stessa».

Il fondamentalismo religioso cioè è una assurda terapia?
«Per noi “outsider” più che altro è una malattia, ma per gli “insider” il fondamentalismo è cura. Per tanti musulmani oppressi, con autostima spezzata e un futuro minaccioso, il fondamentalismo è un tentativo, per quanto difettoso, di rivivere il sacro. E ridare una dimensione spirituale alla politica chiudendosi in una verità religiosa sentita come baluardo alla frammentazione di sé e recupero di identità collettiva».

Il fondamentalista insomma pratica una jihad interiore…
«Sì, lui sente tutte le umiliazioni della nazione dell’Islam, ma la sua rabbia è recriminazione personale e i suoi i sentimenti quelli di una vittima impotente e in lutto per le perdute glorie della storia e civiltà islamica».

Cosa accade invece nella mente del terrorista islamico?
«La reazione a questi profondi sentimenti di umiliazione prende nel mujahidin, il guerriero santo o jihadi, come si chiama, il bisogno impellente di vendetta. Un impulso che non gli dà pace, lo porta a uccidere prima di tutto ogni empatia per chi appartiene al Nemico: donne o bambini, per lui sono sempre figli di Satana. Il jihadi è pervaso da questa gelida rabbia, la vendetta è il suo fine ultimo, terrificante quanto tragico».

Perché tragico?
«Perché nel terrore lui vede l’arena del suo eroismo e idealismo. Ci terrorizza non che sia matto, un drogato fuori di sé come tanti vogliono credere. Ma nella sua lucida capacità di ragionare e al servizio della sua unica, spietata emozione: la dedizione assoluta all’odio».

Crede che l’India sia la più grande democrazia del pianeta, o è già implosa in un supernazionalismo hindu?
«Sono ottimista. In un subcontinente con 1,2 miliardi di persone sarebbe un miracolo se non ci fossero dei conflitti. I conflitti sono conseguenza inevitabile del fatto che l’India è uno stato nazionale e non solo costituzionale».

Già, ma che direbbe Mahatma Gandhi se vedesse oggi tanto nazionalismo induista?
«Gandhi si stupirebbe di quel che sta accadendo oggi ai valori indiani come la compassione e l’empatia, nati sin dai tempi del Buddha. E spererebbe che questi valori siano solo temporaneamente negati da gruppi che esigono più giustizia, ma praticano e seminano violenza».