Ecco come, in questa intervista del 1995 al nostro giornale, il premio Nobel per la Letteratura 2017 raccontava il suo rapporto con la scrittura, la musica e l'Inghiterra, suo luogo d'elezione
Con i suoi primi tre romanzi Kazuo Ishiguro si era conquistato fama mondiale e un posto al sole tra gli scrittori di lingua inglese. Con il quarto ha deciso di «abbandonare la posizione sicura», che gli aveva procurato "Quel che resta del giorno" (prima best seller, poi successo cinematografico mondiale) e di correre qualche rischio, con un libro complesso e difficile lungo 500 pagine, che ha colto di sorpresa critici e pubblico.
Ora che il libro - "The Unconsoled" ("Gli Inconsolabili") - ha superato a Londra in pochi mesi le 50 mila copie di vendita e ha avuto stroncature ma anche recensioni entusiaste, lo scrittore anglo-giapponese può insistere con più sicurezza nella sua svolta letteraria. Per narrare le tribolazioni di un pianista alla vigilia di un importante concerto, Ishiguro si serve, nel suo quarto libro, di una nuova tecnica di scrittura, quella dell'"appropriazione" in cui il protagonista trova se stesso e il rapporto con il suo passato e il suo futuro attraverso il confronto con gli altri.
"Gli Inconsolabili" giunge ora in Italia edito da Einaudi che ha pubblicato tutte le opere di questo autore quarantenne, giapponese per nascita e inglese per elezione. In Inghilterra Ishiguro giunse nel 1960 all'età di sei anni; è qui che ha studiato ed è qui che vuole vivere. Se nei suoi romanzi ama dipingere figure dolenti e melanconiche, nella vita è persona non solo garbata e modesta ma anche allegramente piena di vita e di interessi, come il cinema e la musica che lo accompagnano sin dall'infanzia. Sentiamolo.
Ishiguro, il suo universo narrativo racconta sempre il fallimento di ogni buona intenzione. Esiste per lei la possibilità di non rovinare la propria vita, di essere sulla retta via?
«Questo è stato il tema centrale dei miei primi tre libri. E rispecchia la mia paura di impegnarmi a fondo in qualcosa che mi sembra giusto: e poi scoprire che tutto sommato non è così».
Com'è nata questa paura?
«E' nata quando facevo l'assistente sociale ed ero circondato da amici idealisti, per lo più socialisti e comunisti, con chiarissime idee su quello che era giusto fare. Eravamo tutti, ad esempio, schierati a favore del disarmo unilaterale, chiunque osasse soltanto aprire bocca sull'argomento era automaticamente un fascista. Poi ho cominciato a rendermi conto quanto sia difficile essere sicuri di stare dalla parte del bene, ho cominciato a chiedermi cosa sia una vita giusta e se sia possibile non solo non sprecare la propria esistenza ma anche non contribuire al male».
Cosa fare allora?
«Non so se sia meglio impegnarsi a fondo in qualcosa o invece prudentemente accontentarsi di una vita senza slanci ideali. Personalmente penso che abbiamo il dovere di rischiare, anche se rischiamo di fare del male. Mi chiedo ad esempio come sarà la mia opera tra cinquant'anni e se per caso non avrà contribuito ad alcune tendenze, di cui adesso non mi rendo conto, ma che verranno avvertite allora. Per questo nutro simpatia per chi si impegna a fondo e sbaglia soltanto perché non ha la giusta prospettiva del mondo che lo circonda. Per il maggiordomo di "Quel che resta del giorno", che sbaglia per aver acriticamente seguito le orme del padrone nella scelta del suo credo, nutro invece sentimenti ambivalenti, forse perché, volenti o nolenti, anche noi deleghiamo spesso le nostre scelte ai nostri "superiori"».
Mi sembra che la mancanza di controllo della propria vita sia anche il tema centrale del suo ultimo libro.
«Penso che vi sia stato un cambiamento. La differenza non è solo nella tecnica di scrittura. Nei primi tre infatti, i protagonisti si guardano indietro e vedono la loro vita come un percorso netto in cui possono ravvisare i punti in cui hanno preso la direzione sbagliata. Dunque se loro non avessero fatto quegli sbagli, avrebbero potuto mantenere il controllo della loro vita. Ora che sono più vecchio, non penso più che si possano prendere direzioni sbagliate: penso che non esista sentiero. Era questa la metafora che mi interessava».
Metafora della condizione umana?
«Sì, ho il sospetto che la maggior parte delle persone non ha alcun programma, anche se pretende di averlo. Ma penso che molta gente abbia come un programma inconscio legato a un confuso sentimento di perdita. Come se qualcosa in noi fosse incrinato. Non parlo di trauma né di follia ma forse soltanto della scoperta che il mondo non è come vorremmo. Di qui nasce il bisogno di consolazione. Di qui nasce forse il mio bisogno di scrivere, come per toccare queste ferite».
E' questo il ruolo dell'arte?
«Sì, penso che l'arte probabilmente può consolare. Non curare».
Negli "Inconsolabili" però questo sollievo non c'è.
«Perché le aspettative sono ridicolmente eccessive. La gente non chiede a Ryder, il mio protagonista, solo conforto ma anche la cura dei propri mali. L'arte non risolve alcun problema, tantomeno può fare quei grandi miracoli che molti si attendono».
Com'è nata l'idea della tecnica dell'"appropriazione"?
«E' nata quando mi sono reso conto di come strumentalizziamo il nostro prossimo, come ce ne serviamo trasformandolo in metafore o in dati che corroborino il nostro discorso mentale. Ho deciso allora di esagerare questa nostra tendenza per far muovere il mio protagonista in un ambiente in cui tutte le persone che incontra concorrono a ricostruirne l'esistenza passata e futura. Ho pensato che utilizzando questa tecnica potevo coprire l'intero arco della vita di Ryder, senza ricorrere né alla narrazione cronologica né ai flash back. Poi mi sono reso conto che il mondo dei sogni, che ti permette di essere te stesso e anche altri, era l'universo adatto per accogliere questo nuovo metodo».
E' soddisfatto dei risultati? Che accoglienza ha avuto?
«Sono molto contento, anche se è una tecnica difficile da capire perché non ha alcuna tradizione alle spalle. Sarei stato un po' deluso se l'avessero trovato un libro facile, da ombrellone. Nell'insieme poi ho avuto tra le recensioni migliori della mia vita anche se vi sono state delle stroncature».
Per il prossimo libro, userà la stessa tecnica?
«Certamente».
Quali saranno i tempi principali?
«Il tema della mancanza di programmi è ancora molto importante per me. Ma ve n'è un altro che mi attira e che ho scoperto scrivendo "Gli Inconsolabili": quello dell'idea della prova che prima o poi ci attende nella vita, questo appuntamento cui ci prepariamo con crescente angoscia. E' questa la metafora che intendo esplorare a fondo nel prossimo libro. So che non è originale - chi non conosce il giorno del giudizio - ma la sento profondamente radicata in noi. Di solito viene affrontata in un contesto religioso, ma io religioso non sono».
In quali autori ha trovato consolazione?
«Dostoevskij per un lungo periodo della mia vita, forse per la sua profonda insanità. Poi il Cechov dei racconti, ma non delle opere teatrali che mi annoiano. Kafka lo trovo interessante, soprattutto ne "Il processo" ma non lo citerei se non fosse che il suo nome è stato fatto a proposito de "Gli Inconsolabili"».
Lei è appassionato di cinema. La sua scrittura ne è influenzata?
«Moltissimo, come penso tutti gli scrittori dalla mia generazione in su. Non siamo solo condizionati dal modo di raccontare la storia, ma anche dai cliché e dagli stereotipi nel cinema».
Come è arrivato ai romanzi?
«Scrivendo la parole delle mie canzoni. Poi ho seguito un corso di scrittura creativa all'Università dell'East Anglia».
Continua a scrivere canzoni?
«No, perché è un grande dispendio di energia».
Ma aveva successo?
«E' stato un fallimento completo, anche se, per altri versi, si è rivelato un ottimo apprendistato. Comunque ancor oggi continuo a suonare la chitarra e il pianoforte».
C'è un legame tra la musica e i suoi romanzi?
«Molto importante. Perché quando suoni, devi prendere tutto il tempo decisioni. Non puoi farlo soltanto su basi logiche, ma anche su basi estetiche istintive. Anche nei romanzi vi sono degli aspetti che non puoi spiegare in termini puramente logici ma perché "suonano giusto"».
Come nasce un suo romanzo?
«Normalmente devo avere in mente una struttura, in cui rimanga però spazio per l'improvvisazione. Ho già in mente, ad esempio, la struttura generale del prossimo: un inizio frenetico, una sezione filosofica e un finale nuovamente agitato».
Dove sarà ambientato?
«A Shangai tra le due guerre, quando nella città coabitavano britannici, americani, russi bianchi, francesi, cinesi nazionalisti e comunisti. Un posto interessante, quasi mitico direi. Con cui ho però anche dei legami personali: mio padre vi è nato e cresciuto perché mio nonno vi dirigeva la fabbrica della Toyota, allora nei tessili e non ancora nell'automobile».
da L'Espresso n. 22 del 1995