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Sconfitti in Siria, i seguaci tunisini del Califfo tornano a casa. Giovani radicalizzati, nel Paese più vicino a noi. Sono i foreign fighters di ritorno, considerati eroi e per questo capaci di innescare un meccanismo di imitazione. «Abbiamo il pericolo in casa e non disponiamo di soluzioni» (Foto di Alessio Romenzi per L’Espresso)

Eravamo riuniti per cena, e Sayed era finalmente arrivato da Tunisi in congedo dall’esercito, quando il cane ha cominciato ad abbaiare. Nostro fratello Khaled è salito sul tetto e ha visto un gruppo di uomini avvicinarsi verso casa. Correvano, armati, e ha cominciato a gridare. Ma ormai eravamo in trappola».

Fadha Ghozlani ha trentacinque anni, il suo aspetto è trascurato, gli abiti consunti, il volto segnato dalle rughe e dal dolore. Vive con le sue quattro figlie in una baracca nelle campagne di Kasserine, città tunisina a trenta chilometri dal confine con l’Algeria da quando suo fratello Sayed è stato assassinato da un gruppo estremista legato all’Isis nella loro casa di Thmab, sulle montagne Mghila, poco distanti da lì.
«Sono entrati in casa, hanno riunito gli uomini, li hanno fatti inginocchiare e hanno preso Sayed. Un solo colpo, alla nuca. Ho raccolto i pezzi della sua testa con le mie mani. Non avrei mai pensato che Muntasir potesse fare una cosa del genere».

Muntasir, uno dei terroristi, era il cugino di Sayed. I due ragazzi, entrambi venticinquenni, erano cresciuti insieme, condividendo l’infanzia in una delle zone rurali più povere del Paese. Una famiglia di pastori, la loro. I padri al pascolo con le bestie; le donne in casa. Fadha, la sorella più grande, si occupava dei bambini: lavava i loro abiti, preparava da mangiare.

«Erano due ragazzi esemplari fino alle scuole superiori. Poi Sayed ha deciso di lavorare come soldato nell’esercito e Muntasir ha cominciato ad appoggiare i gruppi estremisti qui sulle montagne. Sayed sentiva di essere in pericolo, ma non voleva denunciare suo cugino. Di quella sera, della sera che è morto, ricordo che si muoveva in casa come se sapesse che stava per accadere qualcosa di irreparabile, ma era qui per portare soldi a me e a nostra madre, per comprare da mangiare. E ora lui è morto mentre Muntasir è ancora libero tra le montagne, con i terroristi».

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La casa di Fadha è una baracca di pochi metri quadrati, una sola stanza con un letto, un cumulo di coperte sporche sul pavimento, una stufa per cucinare, una tanica con dell’acqua, un mobile malridotto che sostiene la fotografia di Sayed, il martire, coperta da uno strato di plastica impolverata.
«Sayed lavorava nell’esercito, difendeva la sicurezza del Paese e oggi io e mia madre elemosiniamo dallo Stato un aiuto che non arriva: ci sentiamo abbandonate, noi come tutti i ragazzi di qui, che vivono circondati da disoccupazione ed estremismo».

La descrizione che Fadha fa di Kasserine è più convincente di ogni analisi sociologica sulle motivazioni che hanno spinto migliaia di giovani tunisini a unirsi alle file dell’Isis. La sua rassegnazione è la rassegnazione dei volti che si incontrano nei bar affollati di giovani nelle vie della cittadina, in giornate vuote, sempre uguali a se stesse e senza prospettive. Giovani privi di fiducia, delusi dalle promesse della delicata transizione democratica seguita alla rivoluzione dei gelsomini del 2011.

Oggi che le capitali dello Stato islamico sono cadute, i miliziani di gruppi estremisti legati all’Isis sulle montagne al confine tra la Tunisia e l’Algeria sono circa trecento. Di giorno si addestrano. Di notte fanno irruzione nei villaggi, minacciando gli abitanti per avere qualcosa da mangiare, e rubano il bestiame, che in queste aree è l’unica fonte di guadagno.

Usano i bambini per ottenere informazioni, chiedono ai ragazzi di indicare chi lavora con le forze dell’ordine e uccidono tutti quelli che considerano spie. Gli altri vivono nel terrore costante che possa accadere loro qualcosa. I giovani vedono in loro una fonte di guadagno.

Sono radicalizzati per necessità economica, molto più che per ideologia religiosa, in una zona, quella al confine con l’Algeria, dove il terrorismo islamico si unisce al contrabbando di armi e carburante, dove le grotte del monte Chambi sono diventate nascondiglio di gruppi legati ad Al Qaeda e Isis, divisi per ideologia ma uniti dai traffici illeciti e dagli attacchi a esercito e polizia, che invano tentano di sconfiggerli.

Ragazzi che non sono stati sfiorati dall’apparente successo del processo democratico della primavera tunisina, dal Paese Nobel per la pace due anni fa. Giovani per cui le elezioni del 2011 e del 2014 e la nuova Costituzione non hanno rappresentato un cambiamento delle condizioni di vita, e che ancora aspettano che il governo risolva i problemi strutturali che affliggono il Paese: la disoccupazione giovanile al 40 per cento, per una popolazione di undici milioni di persone con più di 650 mila disoccupati.

[[ge:rep-locali:espresso:285304074]]Secondo le stime delle Nazioni Unite, sarebbero tra i cinque e i seimila i giovani tunisini che si sono uniti allo Stato islamico in Iraq, Siria e Libia negli ultimi anni. Un numero altissimo. La maggior parte di loro proveniva dalle zone rurali del Paese e dalle periferie di Tunisi, aree in cui la marginalizzazione sociale, l’esclusione politica e l’altissimo tasso di disoccupazione sono stati fattori determinanti nella scelta di andare via e combattere per il Califfato.

E tunisini erano anche i terroristi che hanno attaccato la località turistica di Sousse, il Museo Bardo, così come tunisino era Anis Amri, l’attentatore che ha travolto con un camion un mercato di Natale a Berlino lo scorso dicembre. Tunisino era pure Mohamed Lahouaiej Bouhle, che ha investito la folla a Nizza con un tir nel luglio del 2016. Tutti gli attentati sono stati rivendicati dall’Isis.

Oggi per la Tunisia si è aperta una fase se possibile ancora più delicata, quella della gestione dei foreign fighters di ritorno. «Non abbiamo mezzi per controllarli». La voce di Badra Galoul, presidente del Centro internazionale di studi strategici e militari di Tunisi, è secca e risoluta. Lei, come la maggior parte del Paese, è contraria al ritorno dei combattenti, nonostante la nuova Costituzione approvata nel 2014 preveda che nessun cittadino tunisino possa essere privato della cittadinanza, né che possa essere negato a qualcuno il ritorno in patria.
«I centri di riabilitazione costano e noi non abbiamo denaro. Di progetti di deradicalizzazione non c’è traccia e anche se ci fossero non credo funzionerebbero. Potrebbero dare risultati forse in Francia, in Belgio, su numeri decisamente minori, ma qui stiamo parlando di novecento persone già in carcere e tremila che potrebbero tornare: cosa dovremmo dire loro? Accomodatevi, avete perso la guerra e il vostro Califfato, ora tornate pure a destabilizzare il Paese con il vostro odio e la vostra violenza? No».

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Niente soldi per la deradicalizzazione, nonostante i timidi annunci del presidente Essebsi, né abbastanza soldi per la prevenzione nelle zone marginalizzate del Paese.
Badra Galoul mostra i grafici e i numerosi report su cui sta lavorando dal suo ufficio poco distante dal Bardo. Report su gruppi di Isis che si starebbero riorganizzando in Turchia e Libia. Report sui gruppi in Somalia e Niger e sulle cellule dormienti delle periferie tunisine.

«È il nostro vicolo cieco, ma la storia ci dà degli insegnamenti che non possiamo ignorare. Guardiamo all’esperienza dei vicini algerini e all’ondata di violenza durata dieci anni, con i jihadisti che avevano combattuto in Afghanistan tornati a casa con l’intento di stabilire la legge islamica. I risultati sono stati una guerra brutale e una riconciliazione solo fittizia. L’altra soluzione sono le prigioni. Ma stiamo parlando di migliaia di ragazzi di venticinque o trent’anni, che hanno cercato di costruire la propria identità affiliandosi a gruppi armati e che tornano sconfitti dopo aver passato anni al fronte. Forse saranno condannati per terrorismo. Quindi tra quindici, vent’anni al massimo saranno fuori di prigione, più rancorosi e ancora più radicalizzati di prima. La storia ci insegna anche questo: quanto le prigioni aumentino il problema, anziché risolverlo. La Tunisia non è pronta».

Badra Galoul sostiene, per di più, che i foreign fighters di ritorno possano rappresentare un esempio da emulare per l’enorme quantità di giovani a cui è stato impedito di partire. Una delle leggi emanate per lo stato di emergenza in Tunisia ha previsto infatti che gli uomini al di sotto dei trentacinque anni avessero bisogno di un permesso scritto dei genitori per lasciare il Paese.

Secondo le stime della Galoul i giovani radicalizzati in Tunisia sarebbero almeno 27 mila. «Immaginate cosa possa significare per chi non è riuscito a partire e combattere entrare a contatto con i terroristi che tornano a casa. Si innescherebbe un meccanismo imitativo ancor più acuto del passato, perché nutrito di frustrazione mista ad adorazione. La verità, conclude Badra Galoul, « è che abbiamo il pericolo in casa e non disponiamo di soluzioni».

Fuori dal centro di studi militari, lungo le strade di Tunisi, sfila intanto il funerale di Riadh Barrouta, il comandante di polizia accoltellato al collo di fronte al Parlamento il primo novembre. La folla è rabbiosa: due uomini sopra un camion sollevano la foto dell’uomo; i colleghi scortano il feretro in presenza del ministro dell’Interno. Alcuni di loro piangono, lo chiamano Riadh il martire.

L’assassino, Zied Gharbi, nome di battaglia “Zied Abou Zied”, informatico e disoccupato di venticinque anni, sarebbe collegato ai gruppi fondamentalisti di Cité Ettadhamen, sobborgo a nord ovest di Tunisi ad alta concentrazione di salafiti, in passato aderenti ad Ansar Al Sharia e che è stato fucina di combattenti per l’Isis. A Ettadhamen il sostegno ai gruppi estremisti è ancora molto solido. Quando la polizia ha perquisito casa di Gharbi, i vicini hanno lanciato sassi e pietre contro le loro vetture.

Anche Mohammed viveva ad Ettadhamen, prima di partire per la Libia e poi raggiungere la Siria, da cui non ha fatto ritorno. Sua madre, Naziha, ancora lo aspetta.  

«Un giorno hanno bussato alla mia porta gli stessi che me l’hanno portato via. Mi hanno detto: Naziha devi essere fiera: sei la madre di un martire di Allah. Mi hanno detto che Mohammed è morto combattendo, ma io non ci credo. Non so se tornerà, dice piangendo mentre guarda la fotografia del ragazzo appesa a un muro, ma quegli uomini sono ancora in mezzo a noi e parlano di martirio per le strade con i loro figli, con i bambini di dieci anni. Reclutano giovani per il jihad. Ancora ieri ho sentito uno di loro dire a un altro che sarebbe fiero se suo figlio si facesse saltare in aria».

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