Dopo aver fatto il rottamatore e il premier, ora punta a sfruttare l'onda Macron. Per riconquistare Palazzo Chigi e da lì creare un nuovo asse nella Ue

Nel 2012, quando debuttò da candidato nei gazebo, chiuse la campagna per le primarie contro Pier Luigi Bersani a Siena, nella città del Monte dei Paschi, per mettere sotto accusa «il rapporto sbagliato tra sinistra e finanza» che lui intendeva cambiare. Quest’anno concluderà la corsa a Bruxelles, due giorni prima del voto del 30 aprile, perché, ha spiegato, «c’è l’Europa dei populisti che vuole abbattere tutto e l’Europa dei conservatori che non vuole cambiare nulla. E poi ci siamo noi che diciamo: Europa sì, ma non così».
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La nuova terza via: quella di Tony Blair anni Novanta era tra vecchia socialdemocrazia e thatcherismo, quella di Matteo Renzi è per ora una somma di propositi, uno stato d’animo, l’ennesima reincarnazione dello storytelling. In ogni caso, tutto quello che serve per affrontare una campagna elettorale. Non quella delle primarie del 30 aprile, pallide e disconosciute da militanti e elettori, ma quella vera che comincerà un istante dopo la chiusura delle urne congressuali. Se si vuole conoscere il programma per le prossime elezioni di Renzi bisogna partire da qui, dal luogo scelto per chiudere la campagna elettorale, il simbolo dei bersagli futuri. Siena nel 2012 significava la rottamazione della Ditta, l’assalto al partito di Bersani e di Massimo D’Alema nella città del potere rosso, politico e economico. Bruxelles nel 2017 è l’anticipo della campagna elettorale per le politiche che Renzi vorrebbe anticipare il prima possibile. La legislatura, per lui, è finita il 4 dicembre. Il resto, compreso lo sbiadito congresso del Pd e il governo di Paolo Gentiloni, è soltanto una coda, una parentesi che separa Renzi dalla rivincita elettorale dopo il referendum sulla nuova Costituzione perso alla fine del 2016.
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Si riparte da qui, dall’Europa, eletta a terreno di scontro dall’ex premier. Era la road map che aveva immaginato già un anno fa: inserire l’Italia e la sua leadership nel 2017 della lunga campagna elettorale incrociata di Francia e Germania. Renzi sperava di farlo da posizioni di forza, da vincitore nel suo Paese, sognava di proporsi come l’uomo che aveva riscritto la Costituzione di settant’anni fa, sconfitto i populisti in casa, disegnato un sistema politico fondato sulla stabilità dei governi e del premier di turno, cioè lui. Mentre i due grandi d’Europa traballavano: il francese François Hollande travolto dall’impopolarità e alla fine costretto a non ricandidarsi, la tedesca Angela Merkel in difficoltà in patria e accerchiata fuori. Era la foto del vertice di Ventotene, alla fine di agosto del 2016, con i tre leader in nave al largo dell’isola dove Altiero Spinelli costruì il suo manifesto federalista. Il presidente francese e la cancelliera tedesca andavano in quel momento alla deriva, il terzo, l’italiano, si sentiva forte, fortissimo.
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E invece il progetto è stato aggiornato perché Renzi ha perso la sua sfida e con il referendum la grande occasione di presentarsi sul palcoscenico continentale come il leader che aveva in tasca il vaccino segreto per estinguere il virus populista. Ma di quell’idea originale resta la necessità di allineare l’Italia al voto in Francia e Germania, per trasformare il 2017 in una specie di anno della rivincita delle famiglie politiche europeiste dopo le batoste del 2016. Quindi, votare il prima possibile, è il punto numero uno dell’agenda Renzi per il dopo-primarie del 30 aprile, anche se non può essere esplicitato, almeno finché il congresso non è finito. E poi c’è il solito ostacolo che abita sul Colle. Le elezioni inglesi a questo punto non riguardano più l’Europa, anche se di certo Renzi invidia a Theresa May il potere del premier inglese di chiamare gli elettori alle urne nel momento più favorevole. Sciogliere il Parlamento italiano, invece, spetta al presidente della Repubblica. Sergio Mattarella fissò la sua condizione all’indomani del referendum costituzionale e della nascita del governo Gentiloni. L’esistenza di una legge elettorale omogenea tra Camera e Senato per garantire nella prossima legislatura una maggioranza certa. Solo in quel caso, fece sapere il Quirinale, si poteva finalmente far calare il sipario sulla legislatura e tornare a votare.

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Sono passati quasi cinque mesi da quel momento, però, e nulla è successo. La commissione Affari costituzionali della Camera va avanti da mesi a colpi di audizioni. Quella del Senato si è spaccata sulla scelta del nuovo presidente al posto di Anna Finocchiaro nominata ministro: è stato scelto il centrista Mimmo Torrisi che ha battuto il candidato del Pd, gran frastuono di polemiche ma anche in quel caso alla fine non è successo nulla. Dal Pd nessuna proposta di riforma elettorale, si aspetta di scoprire le carte degli altri, c’è il congresso in corso, si vedrà dopo, ma in realtà tutti sanno che la posizione attendista di Renzi nasconde il vero intento dell’ex e probabile nuovo segretario del partito: dichiarare la fine della legislatura per manifesta inconcludenza. La colpa sarà scaricata sul fronte del No referendario, l’accozzaglia, come la chiamò Renzi, che non è riuscita a produrre una riforma elettorale. Game over, tempo scaduto, dopo il 30 aprile Renzi dirà che non si possono perdere altre settimane nella palude dei veti. Meglio andare a votare subito, con un ritocco tecnico che permetta alle due leggi di Camera e Senato di presentare almeno la stessa soglia di sbarramento (o lo stesso premio di maggioranza). Ma se di ritocco e non di nuova legge si tratta, nei piani di Renzi è già individuato chi dovrà assumersi la responsabilità del make up: il governo Gentiloni, con un decreto di poche righe. E a quel punto la legislatura sarà davvero terminata, il presidente Mattarella non potrà che prenderne atto e sciogliere il Parlamento.

Per l’ex premier, del resto, la campagna elettorale è già cominciata da tempo. Quella per le primarie non è mai decollata, anzi, è rimasta soffocata nel dibattito pubblico e relegata alle rese dei conti tra i gruppi locali. Serve soprattutto a stabilire che nel Pd c’è un solo leader, con una maggioranza solida e a prova di colpi di mano della minoranza o di ipotetici pontieri come Dario Franceschini.

Una volta che il gruppo dirigente si sarà rassegnato all’egemonia renziana, in termini di liste, candidature, futuri posti di governo e di sottogoverno, la macchina elettorale verso il voto politico potrà partire, con un programma di attacco all’Europa. La rottura di quel patto non scritto tra il giovane rottamatore di Rignano e l’establishment italiano e internazionale che fu stabilito all’inizio del suo governo, nel 2014.
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Il primo indizio del patto fu l’ingresso nella squadra di governo di Pier Carlo Padoan al ministero dell’Economia, in continuità con la tradizione: il tecnico con forti agganci internazionali e senza appartenenze di partito alla guida del ministero di via XX Settembre, a far da frontiera tra le ambizioni e gli appetiti della politica nazionale con gli ambienti di Bruxelles e le istituzioni sovranazionali come Bce, Fmi, Ocse. Renzi in un primo momento aveva pensato di designare per quella poltrona Graziano Delrio, ma alla fine la scelta cadde su Padoan, che giurò da ministro il giorno dopo il resto del governo Renzi, dopo un volo dall’Australia: con il nuovo premier non si erano mai incontrati. A far da regista di quella nomina, secondo indizio del patto, era stato l’uomo del Quirinale, all’epoca Giorgio Napolitano. Aveva ceduto sulla Farnesina, dando il via libera alla nomina di Federica Mogherini, non aveva ceduto invece sui nomi dei ministri dell’Economia e della Giustizia (dove andò Andrea Orlando, vicino a Napolitano, oggi competitore con Renzi per la segreteria del Pd). E da quel momento la polemica anti-establishment di Renzi fu provvisoriamente accantonata. Terzo indizio, il vertice segreto, ma finito sui giornali, tra il premier Renzi e Mario Draghi nell’estate 2014, a Città della Pieve, dove il presidente della Bce era in vacanza.

Tre passi di avvicinamento tra il premier che nelle intenzioni voleva rottamare l’Europa «così com’è» e quella parte di classe dirigente italiana che ha sempre sentito come una missione la rappresentanza in Italia delle ragioni dell’Europa sul rigore economico, sul rispetto dei conti, sulla necessità di tagliare il debito pubblico. Finché Renzi è rimasto a Palazzo Chigi il patto ha tenuto, nonostante ripetuti segnali di insofferenza reciproca: ad esempio le polemiche tra l’ex sindaco di Firenze e il senatore a vita Mario Monti, suo predecessore alla guida del governo, individuato come il volto conservatore dell’Europa pro-austerity. Padoan ha rispettato lealmente le direttive del capo del governo, come nessun ministro dell’Economia aveva fatto prima di lui. Dopo il 4 dicembre, però, il patto è saltato, Padoan ha ripreso la sua autonomia e ora la prospettiva di andare in collisione con Renzi diventa sempre più probabile.

Il programma del Pd di Renzi, la terza via renziana, prevede meno tasse, niente aumento dell’Iva, guerra ai tecnici che in questi anni hanno incarnato in Italia i desideri delle istituzioni europee. Padoan e certamente il ministro Carlo Calenda, per Renzi «un ottimo candidato per il centro-destra»: eppure è stato l’ex premier a nominarlo ambasciatore a Bruxelles e poi ministro dello Sviluppo economico, scavalcando gerarchie diplomatiche e convenzioni. Far capire che i ministri tecnici sono fuori linea serve a Renzi a rafforzare il punto centrale della sua campagna prossima ventura, la bandiera da sventolare: il no all’inserimento nei trattati europei del Fiscal Compact, bersaglio prediletto di tutti i no-euro, di destra e di sinistra. Con un gioco di prestigio semantico è un no all’inserimento nei trattati, non al fiscal compact in sé. Una terza via, per l’appunto, tra i custodi dell’ortodossia, sempre più minoritari, in realtà, e i populisti che in Francia e altrove non hanno la forza di vincere le elezioni ma egemonizzano il dibattito costringendo tutte le altre forze politiche a schierarsi pro o contro la loro agenda.

Il cambiamento dell’Europa, per restare l’uomo del Nuovo, dato che in Italia il progetto è fallito, o almeno per ora è accantonato. Il 30 aprile, la data delle primarie Pd, deve segnare nei piani renziani il momento della rivincita, per sfuggire al paradosso di ritrovarsi forte nei palazzi, fortissimo, invincibile nel partito e debole nella società. La ricerca di una terza via, di una terza foto di gruppo (dopo quelle con i socialisti dalla camicia bianca, il francese Manuel Valls e lo spagnolo Pedro Sanchez, e quella con i grandi di Europa Merkel e Hollande, ora con Emmanuel Macron e Martin Schulz), di una terza vita, dopo Matteo il rottamatore e Renzi il governante. A caccia dell’ultimo voto, in una campagna elettorale da cominciare il prima possibile, prima che divenga chiaro che nel suo domani non c’è più Palazzo Chigi.

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