Il sentimento anti-establishment è alimentato, in Occidente, da disuguaglianze sociali sempre maggiori. Ma la contestazione offre l'opportunità di cambiare. Riformando il sistema finanziario e facendo rispettare le regole dei trattati commerciali
Il mondo occidentale è sotto shock per la protesta elettorale esplosa con il voto a favore della Brexit un anno fa, e poi con la vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane del novembre 2016. Nelle elezioni europee di quest’anno finora le forze più estreme sono state sconfitte, ma hanno aumentato in modo significativo i propri consensi; chi pensa che la rivolta degli elettori sia finita solo perché in Olanda e in Francia hanno prevalso candidati più mainstream, si aggrappa a una lettura oltreché superficiale, anche pericolosa per le dinamiche politiche in atto.
Alla base del crescente sentimento anti-establishment c’è un fenomeno profondo e conosciuto da tempo, la sempre maggiore disuguaglianza all’interno delle società occidentali, alimentata da un modello di globalizzazione che ha lasciato indietro grandi segmenti della popolazione. I razzisti, gli xenofobi ci sono, ma è evidente che questi fenomeni vengono favoriti dalle condizioni socio-economiche, come pure dimostrato dalle ricerche accademiche. La rivolta non si limita certamente a uno schieramento politico.
Si vede a destra e a sinistra, sempre legati da un grande e spesso amorfo avversario comune: la grande finanza, le multinazionali, il capitalismo ai tempi della globalizzazione. È proprio il capitalismo il problema? Il rischio in Europa, forse più che in America, è che rinascano certi legami ideologici, con sistemi che su entrambi i versanti dello spettro politico hanno ridotto la libertà per la popolazione. Ormai le élite occidentali hanno definito il dibattito in questi termini: il “libero” mercato è il sistema delle democrazie, il sistema che garantisce la libertà contro le dittature più o meno evidenti; mettere in discussione il capitalismo significa mettere in discussione tutto, e quindi ogni sforzo va profuso per difendere le democrazie liberali occidentali dalle forze del male, non solo esterne ma sempre di più interne alle nostre società. Ha ragione Fukuyama? Nella battaglia delle idee hanno vinto i valori della democrazia e della libertà, e ora si tratta solo di difenderli?
La situazione politica attuale, come anche la storia degli ultimi decenni, ci mostra che le cose sono più complicate. Innanzitutto occorre partire dalla definizione di questi concetti base dell’Occidente. Se la libertà significa il liberismo che premia i mercati e depotenzia gli stati, e se la democrazia significa l’esportazione del nostro modello attraverso le guerre per il cambiamento di regime, allora c’è un primo inganno da cui districarsi. I nostri valori fondanti non possono essere manipolati da parte di un establishment intento a garantire la continuazione della propria supremazia, non proprio in linea con i valori di riferimento del mondo occidentale.
Intanto questa supremazia viene messa in discussione più che mai dal sostegno popolare conquistato dai candidati che criticano la globalizzazione, il libero scambio, la finanza. Ma ancora di più dalla realtà, cioè dall’incapacità dei governanti attuali di risolvere i problemi più evidenti. Sono passati quasi 10 anni dallo scoppio della grande crisi negli Stati Uniti. Per vasti segmenti della popolazione americana la tanta decantata ripresa si è tradotta in stipendi più bassi e precarietà più alta, tanto da renderli molto suscettibili ai richiami dei candidati populisti. Anche in Europa la crisi continua a mordere, in particolare perché si rifiuta di modificare sostanzialmente il modello della Troika. Se non si è disposti a cambiare nemmeno di fronte al proprio fallimento, allora si rischia davvero una rivoluzione caotica.
Si può salvare il capitalismo? La questione è come intervenire per ripristinare gli aspetti migliori del modello economico occidentale che ha prodotto tanta ricchezza e benessere negli ultimi secoli, e soprattutto dal Secondo dopoguerra in poi. I nodi fondamentali sono due: il ruolo dello stato e la crescita della finanza. I cambiamenti più grandi si sono visti con la graduale trasformazione delle economie occidentali a partire dagli anni Settanta in poi, dapprima con il concetto della società post-industriale, e poi con la deregulation e l’esplosione dei nuovi strumenti finanziari.
Arrivati agli anni Novanta il potere dei mercati internazionali è cresciuto fino al punto che si è dato un nome al nuovo sistema: la globalizzazione, in cui scompaiono i confini politici ed economici. E si sono codificati i cambiamenti, a partire dall’Europa, dove l’Unione europea è diventata il veicolo per togliere il potere di iniziativa agli stati, a favore di trattati e istituzioni sovrannazionali con regole monetarie dogmatiche e sempre più contestate. Queste contestazioni ci offrono l’occasione per cambiare, per eseguire degli interventi, urgenti, di manutenzione straordinaria, prima che la situazione sfugga dal controllo.
Partiamo dalla finanza. L’ultimo crac ha reso evidente la necessità di una riforma profonda del sistema finanziario. Eppure il modello di base è stato cambiato poco; si sono potenziati i freni sulla Ferrari della speculazione finanziaria, ma senza cambiare la viabilità, necessaria per evitare gli schianti. E i nuovi strumenti, il bail-in, per esempio, sembrano addirittura peggiorativi per una popolazione già stufa dell’austerità. A destra, a sinistra e al centro si parla di ripristinare una separazione rigida tra attività bancarie ordinarie e speculative, sul modello della famosa legge Glass-Steagall varata negli Usa in risposta alla crisi del 1929.
L’idea è di proteggere l’economia reale dalla speculazione, escludendo la tutela pubblica per gli istituti che conducono operazioni speculative sui mercati. In questo modo i risparmi dei cittadini e i capitali necessari per le normali operazioni di credito non sarebbero intaccati dall’esplosione delle bolle sui mercati. Le istituzioni sia americane sia europee si sono guardate bene dall’attuare una riforma di questo tipo, ma il tema non scompare. Anzi, è stato ripreso da democratici e repubblicani entrambi nelle presidenziali americane del 2016. A questo punto, considerando che la bolla dei derivati è più grande che mai, sarebbe meglio essere preparati alla prossima occasione; pronti a sfruttare la crisi per un cambiamento migliorativo, per riorientare il capitalismo dalla finanza all’economia reale. Oltre ai benefici diretti della separazione bancaria, si mostrerà alla popolazione la volontà di intervenire sul serio, piuttosto che difendere a oltranza un sistema dove Wall Street e la City di Londra rimangono i motori principali dell’economia.
Il secondo tema è il protezionismo, il terribile, temuto, anti-democratico protezionismo, come ce lo presentano gli esperti. Ma che cos’è? Storicamente l’idea è stata di proteggere le proprie produzioni e lavoratori contro le pratiche coloniali e imperiali. Oggi come si potrebbe tradurre questo concetto in misure concrete che non rappresentano una politica di chiusura, ma piuttosto una visione progressista? L’obiettivo dev’essere di contrastare il dumping sociale, cioè di cambiare l’obiettivo perseguito da anni di competere principalmente sui bassi costi. Si parla tanto di tecnologia come il fattore che toglie il lavoro, ma questo non basta per nascondere l’impatto della delocalizzazione alla ricerca di lavoro pagato pochissimo.
Oggi ci sono segnali di un’inversione di tendenza, e l’Industria 4.0 può anche riportare alcune fabbriche in Occidente depotenziando il fattore costo del lavoro. Ma protezione=autarchia è un argomento che non dovrebbe ingannare più nessuno. I grandi accordi commerciali hanno già tante norme che in teoria tutelano le regole sul lavoro e quelle ambientali; solo che non vengono fatte rispettare, perché evidentemente l’obiettivo dei trattati è altro. Da presidente Barack Obama ha detto che il TPP aveva «gli standard sul lavoro e sull’ambiente più forti di sempre». Non ci credeva nessuno, comprensibilmente.
La soluzione sarebbe di cominciare a far rispettare le regole davvero. I dazi e le proibizioni possono essere utili se puniscono le pratiche scorrette, e possono cambiare il carattere del commercio se mirano a favorire la qualità, e non i bassi costi. La catena di valore rende complesso il sistema attuale, in cui i beni intermedi costituiscono una parte importante dei flussi globali. Molti beni sono prodotti non in un singolo paese, ma passano più luoghi nel percorso di realizzazione. Anche qui però, occorre distinguere la convenienza dal principio. Si potrebbe anche cominciare ad accorciare la Global Supply Chain, non solo per sfruttare sinergie che permettono alta qualità e flessibilità - il distretto industriale italiano docet - ma anche per motivi socio-politici.
L’identità non è una parolaccia, quando produce orgoglio tra la popolazione lavoratrice; come i prezzi bassi non sono necessariamente indicatori di benessere, spesso è proprio il contrario. Il capitalismo di oggi ha bisogno di una profonda revisione, ma gli strumenti necessari per riprendere una strada di progresso sono già presenti nella storia occidentale. Per cogliere le opportunità nel mondo attuale occorre guardare con onestà agli errori degli ultimi decenni, ed essere pronti a rifondare un sistema ancora in grado di garantire il benessere per i suoi cittadini.