I successi delle inchieste antimafia e i boss murati vivi al 41 bis sono solo una parte della realtà. Perché i clan hanno cambiato modo di agire e hanno ripreso ad avvolgere il paese nella loro rete. Ecco come

L’odore stantio di un passato che ritorna. Che ci riporta indietro di anni, a prima dell’ascesa dei Corleonesi e di Totò Riina, capo dei capi di Cosa nostra. Prima della stagione delle bombe e delle stragi. Ci riporta alla stagione dell’aristocrazia mafiosa palermitana, del “principe” Stefano Bontate. A quell’idea di mafia fatta di mediazioni, accordi, dialogo, che non è mai stata sconfitta. Nel lungo periodo hanno vinto gli strateghi dell’inabissamento, strenui oppositori dell’attacco frontale alle istituzioni democratiche. I principi sono tornati, e li troviamo capi e reggenti delle cosche. Hanno resistito al carcere, alle confische, alle faide, ai pentiti. Forti di una società che ha bisogno di loro e dei loro servigi. E mentre le cronache riportano la marcia trionfale dell’antimafia giudiziaria, dai territori, da Palermo, Reggio Calabria, Roma, Bologna, Milano, Torino, si levano segnali inequivocabili: lo Stato non ha vinto.

Spieghiamoci meglio: se ci fermassimo alle statistiche della repressione giudiziaria potremmo affermare senza alcun dubbio che le mafie sono destinate a un’inesorabile sconfitta. Se il nostro sguardo si fermasse, senza andare oltre, sulle gabbie del 41 bis dentro le quali sono murati vivi capi mafia di due generazioni criminali potremmo essere oltremodo soddisfatti della lotta ai clan. Ma ridurre la guerra ai mafiosi a una mera questione di ordine pubblico, faccenda da sbirri, giudici e manette, è un suicidio. E se provassimo, invece, a ribaltare il campo d’osservazione spostandoci sull’altra riva del fiume? Dal lato in cui cioè i fatti si manifestano in tempo reale, molto prima dell’arrivo delle sirene e dei detective, di quella giustizia, insomma, che per ovvi motivi arriva solo a crimine compiuto.

Che giudizio daremmo se provassimo a interpretare alcuni segnali, che sembrano indicarci un ritorno al passato? È come se l’attenzione e la tensione etica del post stragi si fossero affievolite. Alcuni pilastri della lotta alla mafia vengono persino messi a rischio da sentenze destinate a fare scuola. Il concorso esterno all’associazione mafiosa, il reato che colpisce le complicità esterne, è sul banco degli imputati. Moltissimi sono i suoi detrattori, in molti vorrebbero celebrare il suo funerale. Eppure se non si colpiscono le relazioni con gli insospettabili, vera forza delle cosche, è impensabile battere le mafie. Il fenomeno mafioso non è solo l’agire criminale, ma tutto un modo di intendere la società, i rapporti umani, sociali ed economici.
ESPRESSOMUNAFO-20170721172943459-jpg

Chi di notte taglia la testa del busto di Giovanni Falcone a Palermo o chi devasta la stele che ricorda il giudice Livatino ad Agrigento è, probabilmente, solo un ignorante. E tale grazie al fallimento educativo che non permette la trasmissione della memoria del passato. Ma c’è qualcosa in più a darci la sensazione di una mafiosità quotidiana. È quella cultura dell’arroganza, dell’impunità, della prepotenza, della prevaricazione e della vandalizzazione della bellezza che vediamo prevalere ovunque attorno a noi. Bisogna dirlo: non siamo in grado di offrire valide alternative a chi vive nel disagio sociale o, peggio, in ambienti criminali. Colpisce la storia del quindicenne della Locride che ha scritto al boss del paese per comunicargli che lui è pronto, vuole essere un suo soldato. È stata la figlia del capoclan, compagna di classe del ragazzo, a consegnare la lettera nelle mani del padre.

Ancora: diamo ormai per scontato che le organizzazioni criminali spostino il consenso elettorale. In questa resa c’è qualcosa di patologico. Come se fossimo vittime di una sindrome di Stoccolma collettiva. Ostaggi di un potere che ci ha assuefatto e sedotto. Siamo così assuefatti che pochi conosceranno la vicenda di Niscemi, il paese del Mous, acronimo delle contestatissime parabole della Marina americana, in provincia di Caltanissetta. Eppure c’è un elemento della vicenda che rientra in quei segnali inquietanti di resa collettiva all’arroganza del sistema criminale. Il mese scorso l’ex sindaco, Giovanni Di Martino, ha scoperto perché cinque anni fa non è stato rieletto: l’avversario che lo ha sconfitto per pochi voti, è la tesi dei pm, aveva il sostegno della cosca locale.
ESPRESSOMUNAFO-20170721173006560-jpg

Di Martino si era distinto per il suo impegno antimafia, e aveva pagato con intimidazioni pesanti la sua scelta. Era diventato primo cittadino nel 2007 con il suo partito, il Pd, nella tornata elettorale successiva al secondo scioglimento per mafia. La primavera è durata un solo mandato. Cosa nostra si è ripresa la scena, partecipando attivamente alla campagna elettorale contro Di Martino. «Ho provato rabbia», dice all’Espresso Di Martino, «perché le autorità competenti non si sono adoperate subito per avviare una commissione di accesso per arrivare ad una proposta di scioglimento del Consiglio Comunale? Questi elementi erano da tempo in mano agli inquirenti». Ma l’ex sindaco la delusione maggiore l’ha avuta nell’apprendere «che nonostante gli sforzi, e i sacrifici personali, la mafia continua a condizionare la libera espressione del voto dei cittadini». Così è finita la carriera di un sindaco onesto e coraggioso. Frenata dai clan e dall’indifferenza del suo ex partito, che prima lo portava come simbolo della lotta alle cosche e poi lo ha dimenticato.

Dal’92-’93, apice della strategia della tensione messa in atto da Cosa nostra, a oggi è indubbio che i risultati ottenuti siano notevoli. Tuttavia c’è da chiedersi che tipo di mafia fosse quella e quali caratteristiche, invece, abbiano oggi le mafie contemporanee. E perché la prima abbia perso, mentre persistono e si rafforzano le seconde. Queste si possono dire violente nella misura in cui riescono a esercitare il loro potere di coercizione senza nemmeno dover trasformare le nostre città in Far West. Sanno influenzare, interferire, manipolare le decisioni economiche e politiche con il denaro e la corruzione. È una mafia, insomma, in piena attività che usa politici, imprenditori, professionisti, ma anche magistrati e forze dell’ordine, per i propri scopi e viene utilizzata dagli stessi per risolvere questioni private.

Clan che sono allo stesso tempo entità criminali paragonabili ad aziende e strumenti al servizio del migliore offerente. Decidono chi eleggere nei Comuni, scelgono assessori e consiglieri, sostengono senatori e deputati, arrivano a dettare il testo delle interrogazioni parlamentari sulle questioni a loro care. Hanno creato nel tempo anche una loro macchina propagandistica, necessaria per ripulirsi l’immagine e offrirsi in pubblico con una faccia “presentabile”. Come imprenditori, invece, agevolano altre imprese nella limatura dei costi offrendo servizi di vario genere a prezzi fuori mercato: smaltimento rifiuti, lavori di varia natura nei cantieri, manodopera da spremere con orari massacranti. Siamo in una terra di confine, dove tutto si confonde, buoni e cattivi frequentano gli stessi salotti, gli stessi luoghi, le stesse aule. Massimo Carminati la definirebbe “mondo di mezzo”, quello spazio in cui purezza e peccato convivono, bianco e nero si amalgamano e formano un’estesa zona grigia, abitata insieme dagli affiliati duri e puri e dai loro complici “perbene”.

Di convergenze criminali sanno qualcosa a Reggio Calabria. Qui una cupola ha gestito da sempre i processi decisionali della città. Ha piazzato governanti e deciso finanziamenti. Accadeva già 30 anni fa, e molti dei sospettati di oggi sono gli stessi di allora. La ’ndrangheta e la massoneria, gli stessi casati criminali di un tempo, boss e spioni infedeli. Cosa è cambiato? Qualche denuncia in più, qualche associazione antimafia che prima mancava, ma quel potere che negli anni ’70 ha trasformato Reggio Calabria in laboratorio di un sistema criminale “misto”, poi mutuato anche da altre organizzazioni, non intende mollare di un centimetro.

«La lotta alla mafia non è tra le priorità di questo Paese», riflette Claudio Fava, vicepresidente della commissione antimafia. Fava ha vissuto la violenza mafiosa sulla propria pelle. Il padre, Pippo Fava, su “I Siciliani” aveva sviscerato il potere oscuro di Catania. Fu ucciso nel 1984. Nel mirino del cronista il vero governo ombra del territorio, costituito da Cosa nostra e dai monopolisti degli appalti in Sicilia, ribattezzati i Cavalieri dell’apocalisse mafiosa. «A Catania sono cambiate molte cose, e allo stesso tempo non è cambiato nulla, chi comanda ha gli stessi cognomi, in alcuni casi anche i nomi, di chi comandava all’epoca dell’omicidio di mio padre. Sempre gli stessi, geografia immutabile del territorio», dice Fava. Un’immutabilità che stride con gli annunci di chi troppo presto ha deposto le armi e delegato il lavoro pesante a magistrati e investigatori, pure eccellenti. I partiti hanno rinunciato a vigilare.
Claudio Fava

Eppure, secondo Fava, se la sinistra avesse fatto tesoro dell’insegnamento di Enrico Berlinguer, della sua “questione morale”, e l’avesse applicata alla lotta alla mafia, non assisteremmo oggi a un inquietante ritorno al passato. «È come se in assenza dell’odore del napalm aspettassimo giorni più tragici per ritornare al fronte, come se la lotta alla mafia fosse solo un problema di polizia giudiziaria. Intanto la criminalità organizzata continua a condizionare la politica, interferisce nei processi finanziari ed economici».

Che la sola repressione non sia sufficiente è scritto nei provvedimenti stessi delle procure: facciamo i conti con famiglie mafiose arrivate alla quarta generazione, che dominano la scena da mezzo secolo nonostante arresti, carcere duro e confische. «Queste famiglie sono state capaci di trasmettere alle nuove leve la forza criminale e il senso di impunità, nonostante tutto» aggiunge il vicepresidente. «La mia impressione, ciò che mi preoccupa davvero», continua, «è che si sia tessuta una tela di potere di cui la mafia è componente essenziale ed è una tela che condiziona processi politici ed economici, una sorta di scambio reciproco tra diversi mondi».

Conferme in questo senso giungono da più luoghi, centrali nelle strategie criminali, eppure apparentemente periferici per l’attenzione dei media. La cupola masso-mafiosa di Reggio Calabria, il riciclaggio al Nord e in Europa, il connubio tra clan e logge a Trapani. Qui, ad esempio, alle ultime elezioni un candidato si trovava ai domiciliari e un altro, il senatore Antonio D’Alì, in attesa di un’udienza che stabilisse se disporre la misura dell’obbligo di dimora chiesta dalla procura di Palermo. E sempre nel trapanese, a Castelvetrano, paese del super latitante Matteo Messina Denaro, il filo che lega grembiuli e mafiosi fa da sfondo al recente scioglimento per mafia del Municipio. «A Castelvetrano Messina Denaro ha costruito una rete di protezione nel ceto medio, nella borghesia cittadina. Non si tratta di omertà, attenzione. Ma di convenienza. La classe imprenditoriale ha trovato in Cosa nostra un partner ideale. E questo avviene anche altrove.
Identikit di Matteo Messina Denaro

Siamo tornati alla mafia poco appariscente e di sostanza del periodo pre-Corleonesi. Sconfitta l’ala stragista, insomma, il mosaico ridotto in mille pezzi è stato ricomposto. Oggi Cosa nostra e le altre organizzazioni sono tornate a essere parte integrante del panorama. Con modi meno rozzi, ma con la stessa capacità di mettere tutti d’accordo e seduti allo stesso tavolo». Poi Fava ricorda un’audizione in Commissione antimafia. «I magistrati di Palermo avevano riscontrato che alcuni imprenditori si erano recati dai mafiosi, non perché minacciati, ma per stabilire un rapporto di reciproco vantaggio. La parola convenienza ha soppiantato la parola omertà. Del resto le cosche rappresentano il socio adeguato alla complessità di quest’epoca».

Complessità irriducibile al solo folklore delle organizzazioni mafiose. La mafia che ha vinto non è quella che celebra un funerale pacchiano con la musica del Padrino, la pioggia di petali di rosa e la carrozza con i cavalli per salutare l’ultimo patriarca. Non è neppure un anziano di 90 anni che ricorda i fasti del passato sotto un ulivo nella sua campagna in Calabria o in Sicilia. E non sono neppure i ragazzini armati fino ai denti che hanno seminato il panico per i vicoli di Napoli.

Per trovare oggi le mafie bisogna seguire i soldi. C’è un pentito che sta parlando con i magistrati di Reggio Calabria. Lui è un vecchio riciclatore di miliardi ricavati dai sequestri di persona. «Sa dottore» ha detto rivolgendosi al pm, «eravamo i migliori clienti di alcune banche internazionali, non è stato difficile per noi diventare soci». Ecco, dove sono i tesori dei clan? L’ultima grande sfida investigativa. Una pista che potrebbe portare lontano nel cuore di un’Europa per niente intimorita dai capitali delle cosche e priva di leggi adeguate per sradicare le succursali mafiose. Purché si evitino fastidi, clamori, sparatorie e violenza, nessun denaro è straniero nella grande e civile Unione.

Aggiornamento del 28 luglio 2017
La precisazione e la nostra risposta