Dagli Usa all’Europa, la politica non ?si fa più scrupoli a dire bugie ed è arrivata al punto di rivendicare le proprie balle con orgoglio. Perché così aumenta la propria fetta di tifosi. E se Trump ha portato quest'arte a un nuovo livello, l'Italia con Berlusconi e Renzi non prende lezioni da nessuno

Un paio di mesi fa, con un’iniziativa senza precedenti, il New York Times ha pubblicato la “lista definitiva delle bugie di Donald Trump”, che sono finora centinaia. La lista può esser letta anche come catalogo dei tipi possibili di bugia: esagerazioni, falsi annunci, errori di fatto, dichiarazioni strampalate o sbruffone. Il giornale ha notato che, dei più di cento giorni che ha passato alla Casa Bianca, solo un giorno è passato senza che Donald emettesse bugie in pubblico.

Tra le più grosse, quella che si è fatta scappare il 1° giugno annunciando: «Sono appena tornato da un viaggio all’estero dove abbiamo concluso un accordo da circa 350 milioni di dollari per lo sviluppo militare e economico degli Usa, creando centinaia di migliaia di posti di lavoro». Il giornale annota, sornione, che «le cifre erano gonfiate e premature», cioè totalmente fantasiose. «Nessun presidente - in nessuno dei due partiti - si è mai comportato come Trump», ha aggiunto. Ma Donald non si è dato per inteso: qualche giorno fa, ha dichiarato senza fare una piega di aver ricevuto due telefonate di elogi dal capo dei Boy Scout e dal presidente messicano, ma s’è scoperto subito dopo che erano due bufale.

Analisi
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Donald ha di certo passato il segno, ma il New York Times s’illude se immagina una politica senza menzogne. Il fatto è che negli Usa la cultura della sincerità pubblica è radicata. Ma le bugie sono consustanziali all’attività politica, dato che servono a tre obiettivi fondamentali in quel mondo: acquistare consenso, coprirsi le spalle e raggiungere un traguardo impervio. Sarebbe bastato sporgere un po’ il naso fuori, infatti, per scoprire che la bugia pubblica si usa ovunque senza risparmio.

Tra quelle recenti, spiccano quelle, enormi e sfrontate, con cui François Fillon ha tentato di negare gli spettacolari favori coi soldi dei francesi che aveva fatto a moglie e figli.

Si parva licet, in questo campo l’Italia non è seconda a nessuno. Dopo il bugiardissimo Mussolini, il campione di questa speciale arte è Silvio Berlusconi: dalle falsità vere e proprie (“il presidente operaio”), alle false promesse (“meno tasse per tutti”, “un milione di posti di lavoro”), alle castronerie (“l’anno scorso gli sbarchi di immigrati sono calati del 127 per cento”), alle mitologie fantasiose (“il partito dell’odio, il partito dell’amore”), a Silvio si deve anche una notevole estensione del concetto del mentire. Ha mostrato infatti che questo non consiste solo nel dire una cosa non vera, ma anche nel fare promesse inattuabili, nel distorcere i fatti (il caso della “nipote di Mubarak”), nell’occultarli e nel sottacere lo scopo reale di un atto vero.
Donald Trump

In questa indisponente graduatoria, Matteo Renzi, per parte sua, è secondo solo in ordine di tempo: per dirne solo una famosa, dopo aver annunciato urbi et orbi che, se avesse perso il referendum, si sarebbe ritirato dalla politica, si guardò dal farlo; mesi fa ha disinvoltamente raccontato come una vittoria la pesante sconfitta Pd alle ultime amministrative.

Nella democrazia light dell’epoca digitale, le bugie sono così correnti che sarà bene cominciare a chiamarle «fatti alternativi», come ha suggerito (con inconsapevole genialità epistemologica) la portavoce di Donald a commento delle prime bugie che venivano attribuite al presidente. Allo stesso modo, la menzogna è praticata e teorizzata nella cerchia di Emmanuel Macron. Il suo portavoce Christophe Castaner è stato beccato più volte a mentire e Sibet Ndiaye, la disinvolta capoufficio stampa, ha ammesso giorni fa che «si assume la responsabilità di dir bugie per proteggere il presidente». L’assuefazione al web accelera con un infrenabile crescendo l’evaporare della realtà dura nel mare dei fatti alternativi.

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Dinanzi a questo mare di bufale, che sarà mai il catalogo di Donald? Se il New York Times insorge, in Italia, dove «la domanda pubblica di sincerità» (come dice Luciano Violante in “Politica e Menzogna”, Einaudi 2013) è modesta, ai cittadini sembra importare poco se chi li governa dica il vero o no e perfino i dati Istat possono essere messi in dubbio senza fare una piega.

Essendo un popolo di story-tellers (cioè di gente che la racconta e se la racconta), ciò non sorprende. Il mentire infatti, proprietà unica del linguaggio umano, è cruciale per narrare storie. Per questo è normale che, se uno mente come Donald, «sta cercando (dice acutamente il New York Times) di creare un’atmosfera in cui la realtà è del tutto irrilevante». È esattamente il terreno su cui nascono la narrazione, il cinema, il teatro e tutte le arti in cui si raccontano storie.

Il problema, quindi, è il seguente: può la politica sopravvivere senza mentire? Il tema preoccupa da tempo i filosofi. Jacques Derrida sottolineò l’urgenza di metter mano a una “pseudologia” o scienza della menzogna, di cui esistono già autorevoli frammenti (da sant’Agostino ai moderni). La linea di riflessione su questo tema è ininterrotta e ha alcuni high points. Hannah Arendt nel 1967 dedicò un famoso saggio al mentire in politica (“Lying in politics”). A fine Settecento, per esempio, ebbe luogo uno spettacolare dibattito a distanza tra Immanuel Kant e Benjamin Constant sull’opportunità di mentire in politica. Kant lo escludeva in modo tassativo. Più pragmaticamente, l’acuto Constant replicò che non dir bugie è un obbligo, «ma solo verso chi ha diritto alla verità».

Qui sta forse la chiave del problema. Per Donald come per i suoi omologhi europei in formato minore, se si mente al popolo è soprattutto perché si ritiene che non abbia alcun “diritto alla verità”. E le menzogne più gravi non sono quelle su singoli fatti, ma quelle che consistono nel tenere nascoste le proprie vere intenzioni.