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Così il lavoro affoga nella burocrazia

Quintali di carta, moduli da riempire, certificazioni, autodichiarazioni. Dal chirurgo al ristoratore la moltiplicazione delle scartoffie ruba tempo e tutela poco

L'ipocrisia di una regola affermata, ma sistematicamente disattesa nella pratica, è un male peggiore dell’assenza di quella stessa norma. Perché «le regole nascono per dare soluzioni ai problemi concreti. Questa è la funzione che dovrebbero tornare a svolgere. Altrimenti ecco le disfunzioni che stiamo osservando in Italia». Riccardo Salomone è ordinario di Diritto del lavoro a Trento. Ed è convinto che «il diritto sia stato caricato di funzioni e significati diversi dai propri». Che soffra, soprattutto, di «una sistematica, perniciosa, ipocrisia», nel nostro paese.

Ipocrisia che porta a scrivere un’abbondanza di protocolli, codici e cavilli in commi a contratti, per poi lasciare che la realtà continui a discostarsene con «deviazioni gigantesche». Generando così una doppia stortura: da una parte le norme si fanno più complesse; dall’altra i cittadini smettono di farvi affidamento. «I sistemi normativi sembrano servire oggi soprattutto per evitare questioni. Le regole vengono usate per proteggere se stessi piuttosto che per risolvere i bisogni degli altri», continua Salomone. Risultato? «Diventano burocrazie». Ovvero: l’esercizio del diritto si esaurisce in un modulo che ne prevede la tutela. Per iscritto. E poi non resta altro che un foglio, un’indicazione astratta, incapace di fermarne le eventuali violazioni, di dare soluzioni e spazi, di entrare nel merito. «È la frammentazione degli interessi e del potere», conclude il professore: «Ad aver fatto sì che tutti abbiano fretta oggi di usare le regole per autogarantirsi, per non essere messi in discussione da altri centri di influenza, piuttosto che per risolvere le difficoltà degli altri».

Burocrazia
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30/8/2017
Roberto Orlandi è un ortopedico, non un giurista. Ma vede nella sua pratica gli stessi meccanismi indicati da Salomone. Due mesi fa ha scritto a un quotidiano locale, a Bergamo, lamentando come «la burocrazia valga ormai più del malato». «Da chirurgo penso che sia giusto, e fondamentale, che il medico, il primo responsabile di quanto accade in sala operatoria, scriva nel dettaglio e firmi il verbale dell’intervento eseguito», racconta: «Verbale che comprende la diagnosi, la descrizione, i codici operativi, le check list e tutto il resto. Ma non è normale che io debba ricopiare sulla scheda di dimissioni quanto è già contenuto in quel documento. E così per tutti i copia e ricopia che ci è chiesto di fare, anche dieci volte a operazione, carta che sottrae il nostro tempo a chi è in cura e all’aggiornamento professionale». Sono mansioni amministrative e burocratiche, insiste «che servono solo ad agevolare i controller, non i pazienti». Da due anni si cerca di estendere in Italia la cartella clinica elettronica, che dovrebbe rendere automatico il processo, «ma rischia di rimanere indiscusso il principio: quello di aumentare i moduli per scaricare le responsabilità lungo la catena. È come mettere un divieto da 40 chilometri sulla rampa d’uscita dell’autostrada: sai che tutti andranno più forte, ma così scarichi la responsabilità».

Anche se lavora in un settore e in una regione lontani da quelli dell’ortopedico o del professore, Raul Pennino conosce la stessa ombra. Un anno e mezzo fa, con un gruppo di amici, ha fondato in provincia di Caserta una startup che produce hamburger, fettine e ragù 100 per cento vegetali. Ha la certificazione biologica, quella vegana, i collaboratori formati per la sicurezza, e una frustrazione: «Il corso di formazione sanitaria? Paghi, e passa. Le certificazioni? Paghi, e passa. Gli enti che distribuiscono i loghi sono privati, e non hanno un grande interesse a eseguire ispezioni. Allora è perché io sono meticoloso, e ci tengo, che qui è uno specchio, altrimenti basterebbero quei quintali di carta. Cinque copie di ogni registro, e sei a posto. Loro, li ho visti solo due volte. E a me dispiace tanto, perché penso che i controlli migliorerebbero il settore».

Il problema delle certificazioni nell’alimentare e nel bio, mercati di punta per l’Italia che cerca di uscire dalla crisi, è nazionale: molte di queste non sono che auto-dichiarazioni, operazioni quasi di marketing per avere un bollino. Anche gli istituti più seri restano consorzi privati. «Servirebbe un ente statale. I Nas ad esempio da me sono venuti una volta, a sorpresa.

 hanno trovato ovviamente tutto a posto, perché per me è fondamentale rispettare le regole». Norme, dice, «che sarebbero tutte di buon senso, se non restassero teoriche. E soprattutto se fossero ben coordinate». Altra esperienza diretta che ha: per aprire l’azienda ha fatto la spola fra uffici e uffici che «non sapevano a che classe Ateco ricondurre i miei prodotti», e che «non mi hanno aiutato a districarmi nel sistema». «Alla fine mantieni questa sensazione che se ci riesci, è perché ti hanno fatto un favore», commenta: «Ma questa è proprio una sensazione che non sopporto».

L’ipertrofia e la complessità della normativa sono un altro degli aspetti che ciclicamente riemergono nell’osservare l’impasse burocratica del paese. «Basti pensare all’occupazione: ci sono 800 contratti nazionali di lavoro in Italia. Un paese normale ne ha 200. A cui vanno aggiunti il livello aziendale, le norme europee...», spiega Michele Tiraboschi, direttore del Centro studi Marco Biagi dell’università di Modena e Reggio Emilia: «Partiamo con una quantità enorme di regole. In parte sconosciute agli stessi imprenditori». L’obiettivo dovrebbe essere «avere regole flessibili ma che si applichino a tutti», non regole rigide che vengono sistematicamente aggirate. «Il dibattito di questi giorni sull’autocertificazione nei primi tre giorni di malattia ad esempio è fondamentale. Perché significa diminuire l’impatto di 23 milioni di lavoratori sui medici di base», in un momento, spiega: «in cui piuttosto che di mini verifiche dovrebbero occuparsi del prossimo futuro: ovvero i malati cronici al lavoro. Con l’invecchiamento della popolazione sarà uno dei più importanti temi mondiali secondo l’Oms. E noi non abbiamo nessuna legislazione chiara in merito». Ovvero: «Abbiamo poche regole per le cose più importanti e molte per quello che lo sono meno».

In cucina, come in sala, sarebbero tutti d’accordo, nel ristorante da tre stelle Michelin che la famiglia Cerea conduce da mezzo secolo. «Abbiamo 50 dipendenti. Cresciamo di anno in anno», racconta Chicco Cerea: «Certo, il carico fiscale ti fa passare la voglia d’ingrandirti. E la burocrazia fa il resto per togliere ogni entusiasmo... ma ci proviamo». L’ipertrofia, per Cerea, ha il timbro «dei 12 diversi enti che possono venirci a fare un controllo. Dodici! E poi fanno la legge per “l’home-restaurant”... Immagino i controlli agli abbattitori casalinghi».

Si riferisce a una norma per regolamentare le startup delle cene a domicilio: per l’Antitrust il testo in discussione in parlamento è considerato troppo restrittivo. Per Cerea, invece, si tratta già di concorrenza sleale. Di creare due binari: quello di chi avrà meno o zero regole, e quello di chi continua a averne troppe. «Un esempio? La normativa sugli allergeni: giustissima. Ma per un ristorante come noi che cambia il menu praticamente ogni giorno, a seconda delle primizie, è possibile che io debba compilare fogli e fogli con tutti gli allergeni che sono dentro ogni ricetta ogni giorno? Chi li legge?». È teoria. Non pratica. E ogni piccolo sasso sulla strada, per chi cerca d’essere una Ferrari, e non un’utilitaria, è un muro.

La metafora è di Stefano Piccolo, professore di Biologia molecolare all’università di Padova, autore di studi d’avanguardia sulle cellule staminali. Riflettendo sulle “regole”, Piccolo richiama quelle che formano i criteri per la valutazione dei docenti, «in modi che spingono alla medietà. Che non premiano lo sforzo all’eccellenza, anzi abbassano la soglia della qualità». Regole «formali. La cui applicazione egemonica asfissia il merito anziché favorirlo. Queste regole infatti premiano chi si adegua. Non chi innova». Il perché riporta all’inizio della discussione: «perché si delega a una norma, a un algoritmo, la responsabilità di entrare nel merito» . Che dovrebbe invece essere delle persone. E non di moduli.

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