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Attualità
agosto, 2017

Francesca Puglisi: «All'uomo non piace la donna emancipata, così la uccide»

«È fondamentale un cambiamento di cultura e di mentalità» afferma la presidente della Commissione d'inchiesta sul femminicidio. «Le violenze? Maggiori al nord nonostante la Calabria sembri il Pakistan»

«Il femminicidio è una tragica violazione dei diritti umani, tra l’altro la più tollerata nel nostro paese. Ha alla base un tratto culturale molto difficile da sradicare, quella che i movimenti femministi hanno chiamato cultura patriarcale, fondata sul dominio e sul possesso dell’uomo sulla donna». A parlare è la senatrice Francesca Puglisi, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, istituita dal Senato il 18 gennaio 2017 per indagare su questo fenomeno dilagante, valutare incongruità e carenze della legislazione e proporre soluzioni al Parlamento.

Senatrice Puglisi, quali sono le criticità che avete fatto emergere in commissione?
Ascoltando sia i centri antiviolenza sia i comuni, ci siamo resi conto che il problema più pressante è quello dei finanziamenti. Dal 2013 al 2016 i governi che si sono succeduti hanno destinato all’incirca 70 milioni di euro con diversi bandi. Quindi non è un problema di quantità, quanto piuttosto di utilizzo e destinazione del budget. Lo Stato ha destinato i fondi alle regioni: in alcuni casi  sono stati utilizzati oculatamente,in altri sono stati spesi a pioggia, destinandoli ad associazioni che sono spuntate come funghi e si sono presentate come centri antiviolenza anche non avendo nessun criterio per esserlo.
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C’è una soluzione?
Credo che sia importante un cambio di governance dei finanziamenti, cioé una programmazione regionale e un’erogazione diretta ai comuni o addirittura agli stessi centri antiviolenza. Inoltre c'è bisogno di una definizione dei livelli di qualità affinché un’associazione possa definirsi tale.

Quali sono le regioni che spendono meglio i fondi che lo Stato destina alla prevenzione della violenza?
Toscana, Emilia Romagna e Lombardia lavorano da sempre molto bene. E paradossalmente sono le regioni dove le violenze sono maggiori, come nel centro nord in generale.
La senatrice Francesca Puglisi

Come si spiega questa relazione tra le regioni dell’Italia centrale e settentrionale e l’alto numero di violenze?
La chiave è la maggiore emancipazione delle donne e la loro maggiore presenza nel mondo del lavoro. A Bologna l’occupazione femminile è del 60 per cento, una percentuale in linea con i paesi più sviluppati, mentre in Calabria abbiamo un tasso molto vicino a quello del Pakistan. Ma il dato non è così semplice da analizzare. Nel centro nord c’è una maggiore propensione a denunciare la violenza, le donne sanno di poter contare sul sostegno delle istituzioni per sottrarsi alle violenza. Al Sud le denunce sono inferiori, ma non è detto che lo siano anche le violenze.
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Negli ultimi giorni abbiamo avuto una lunga serie di femminicidi e violenze sulle donne. Quello che colpisce molto è l’abbassamento dell’età sia delle vittime sia dei carnefici.
Nonostante questi episodi facciano molta impressione, i casi di femminicidio non hanno visto un abbassamento dell’età media. Purtroppo la violenza domestica e di genere è un fenomeno trasversale: il colpevole può essere l’avvocato come il disoccupato, il laureato come chi non ha mai studiato, l’adolescente come il pensionato.

Come vengono trattati i casi di femminicidio dai mezzi d’informazione?
Credo che siano stati fatti dei passi in avanti grazie all’attenzione dell’ordine dei giornalisti e di gruppi di giornaliste che si sono organizzate - penso all’associazione Giulia - portando all’interno delle redazioni una maggiore sensibilità. Però c’è ancora molto da fare. Uno degli ultimi casi, il femminicidio di Tenno, è stato trattato dai principali quotidiani nazionali come un omicidio-suicidio con una narrazione semplicemente romanzata della figura di questo bravo ragazzo, che faceva il volontario, che ha avuto un raptus omicida. Ma non è così, la fidanzata è stata uccisa perché non voleva andare a vivere con lui. Non era un omicidio-suicidio, ma un femminicidio: ovvero l’uccisione di una donna in quanto donna perché aveva scelto autonomamente e liberamente di non andare a vivere con il proprio compagno. C’è stato un racconto, da parte delle principali televisioni e quotidiani, completamente distorto. E questa cosa assolutamente non va bene.
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Cosa implica questa “narrazione distorta”?
In questo genere di reati è fortissimo il rischio di emulazione, com’è stato segnalato in Commissione sia dai centri antiviolenza sia dal generale dell’Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette. Sempre più centri antiviolenza sentono raccontare alle donne le minacce fatte dal partner sono «Ti brucio come Sara», «Ti sfregio come Lucia». Per questo chi racconta i fatti di cronaca ha il dovere di non presentare questi orrendi crimini in narrazioni tipo fiction, con cui il carnefice assurge all’immortalità mediatica. Inoltre Del Sette ha invitato a fare attenzione alle foto prese da Facebook di quando le coppie erano felici, spesso utilizzate dai giornali.

Sono stati fatti passi avanti per contrastare il femminicidio e la violenza di genere nel corso di questa legislatura?
Assolutamente, il Parlamento e i governi che si sono succeduti sono stati molto attenti al problema. Abbiamo cominciato nel giugno 2013 con la ratifica della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Pochi mesi dopo è stato introdotto con il decreto legge 119 l’inasprimento delle pene nei casi di femminicidio. Inoltre il decreto ha dato strumenti e misure cautelari più efficaci a magistrati e forze dell’ordine: come l’allontanamento dalla casa familiare, l’aggravante della violenza subita da minori o l’ammonimento che può essere applicato dal questore già prima della querela. È stato anche istituita per la prima volta, con il Piano nazionale straordinario contro la violenza, un osservatorio nazionale con diversi tavoli di lavoro. Ma il Parlamento non si è impegnato solamente a rendere la repressione più efficace, ma anche promuovendo la prevenzione…
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Proponendo quindi un cambiamento di cultura e mentalità?
Proprio così. Ed è quello che è stato fatto con la legge 107, la famigerata “Buona Scuola”. Con il comma 16 si è voluto promuovere un profondo cambiamento culturale nel paese. La norma impone alle autonomie scolastiche di inserire nell’offerta formativa insegnamenti sulla parità di genere e sulla prevenzione della violenza, che coinvolgano i ragazzi, le loro famiglie e gli stessi insegnanti.

Perché questa attenzione per il mondo della scuola?
Com’è emerso nel corso dell’audizione in Commissione della ministra Fedeli, alcune indagini evidenziano che per il 17 per cento dei preadolescenti, alle prese con i primi rapporti con i coetanei, risulta normale dare uno schiaffo alla propria fidanzata. Ma la cosa che a me veramente atterrisce leggendo i dati è che la stessa ragazza non considera come violenza ricevere una sberla dal proprio fidanzatino. Proprio per questo è necessaria una maggiore attenzione già nei primi anni di scuola.
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Provvedimenti simili sono stati presi anche per le università?
L’università italiana è sempre stata motore dei cambiamenti culturali del nostro paese . Se noi vogliamo combattere la violenza di genere è necessario che tutti gli attori del sistema di protezione e di tutela consapevoli del problema e sappiano riconoscere i segnali della violenza. Per questo abbiamo previsto che tutte le facoltà debbano avere programmi per formare in modo adeguato magistrati, avvocati, insegnanti, medici di base e di pronto soccorso. Chi ricoprirà questi ruoli nel futuro deve ricevere una preparazione adeguata per riconoscere la violenza e divenire parte attiva nella sua repressione: è fondamentale per il cambiamento del paese.

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