Michela Marzano: 'Parlamento addio, Renzi ha scelto solo i fedeli, non i più preparati'
Incompetenti al potere, leader fuori dalla realtà. L’esperienza di una deputata venuta dalla società civile. E lì ritornata
di Susanna Turco
30 gennaio 2018
Renzi? Si è circondato di incompetenti. Il Pd? Un partito nel quale pur di rispettare un ordine si votano leggi incostituzionali. Il Parlamento? Un posto dove gli accordi contano più della sostanza e, senza una carica, non combini niente. Pollicino, per ritrovare la via di casa nella favola di Perrault, disseminava il sentiero di briciole. La filosofa Michela Marzano per non ritrovare mai più la strada per il Parlamento, dopo una legislatura da deputata dem, le briciole le ha raccolte tutte. Lo si vede dalla cura che mette nell’evitare che una sola le salti fuori dalla tasca: «Amici? Sì ho stretto qualche amicizia a Montecitorio. Anche trasversale. Ma non voglio fare nomi, parrebbe una valutazione politica, li metterei in difficoltà». La si direbbe nauseata dai Palazzi, salvo che lei nega di esserlo, e definisce l’esperienza «importantissima». Insomma: fiducia zero, ma elegantemente portata. Adesso che nuovi intellettuali, imprenditori, medici, sportivi e altri campioni della società civile si apprestano, anche stavolta, a fare il salto in politica, lei si accinge a ricostruire la sua vita a Parigi (a breve vedrà a cena anche Enrico Letta), là dove l’aveva lasciata quando si mise a fare la pendolare tra Montecitorio e l’Università Descartes. È delusa dai leader, dal Pd, dalla politica. O meglio dice: «Non fa per me». Ai prossimi che prenderanno il suo posto non ha consigli da dare, tranne uno: «Non farsi strumentalizzare e fagocitare dalle logiche di potere».
Bum. Non starà chiedendo troppo? «Eh ma se anche un intellettuale, appena entra, scivola nelle logiche del politichese, allora non c’è nessuna speranza. Non farsi trattare da figurine è l’unico modo per ridare alla gente un po’ di fiducia».
Lei, fatta la prova, se ne tiene alla larga. «Mi hanno detto: se lei non si ripresenta, le cose non cambieranno mai. Può darsi, ma ho dato».
Come è arrivata alla Camera? «Tutto cominciò con una telefonata, prima di Enrico Letta e poi di Pier Luigi Bersani».
Li conosceva? «No. Mai fatto politica. Non conoscevo nessuno. E la tessera non l’ho presa mai. Avevo soltanto incontrato Letta partecipando a un convegno dell’Aspen, dove ero stata invitata a parlare».
Come accade che dal nulla salti fuori una candidatura? «La telefonata fu così: buongiorno sono Pier Luigi Bersani. Silenzio necessario a riconoscere la sua voce, visto che non avevo mai parlato con lui. Poi: abbiamo fatto un appello alla società civile, vorrei proporti la candidatura con il Pd. Ma come, che significa? Nessuna risposta. Salvo un: riflettici, stiamo per chiudere le liste».
Insomma, occhio a rispondere al telefono, di questi tempi. «Inizialmente prevalse il no: non c’entrava niente con la mia vita. Poi ha vinto il senso del dovere. Io sono una donna di doveri, era una questione di coerenza con le mie battaglie».
Come è stato il primo impatto? «Quello col Parlamento emozionante. Quello coi Cinque Stelle spaesante: urlavano in Aula “trovatevi un lavoro”, io gli rispondevo “un lavoro ce l’ho”. Quello con il gruppo del Pd non facile. Uno dei primi atti è stato eleggere il presidente della Repubblica. Difficile immaginare un momento peggiore».
Una tragedia greca. «Una lenta agonia a cui ho assistito».
Franco Marini, Romano Prodi. «I dem erano andati in giro per tutta Italia dicendo che si doveva cambiare tutto: e poi hanno proposto Marini! C’era una grande confusione, disordine, perdita di riferimenti. Anche chi aveva fatto politica da sempre non si rendeva conto di cosa stesse succedendo. S’era persa di vista la realtà, già in campagna elettorale: e andavano avanti come un treno, fingendo che fosse tutto a posto. Ero allibita».
Ha fatto poi vita di partito? «No, ho partecipato giusto alle assemblee del gruppo parlamentare, all’inizio anche con Sel. Era evidente da subito che non fossero coesi. Mi ricordo il mio primo intervento, sul caso della ministra Cancellieri. Dissi che non ero d’accordo con la linea scelta dal Pd ma che accettavo di votare in conformità al gruppo. Poi ho cominciato pian piano a differenziarmi».
No al Jobs Act, alla legge sulla tortura, alla continuità affettiva... Metà dei suoi interventi sono dedicati a spiegare un no. «Erano dovuti a una mancanza di coerenza, nelle scelte del Pd, rispetto ai valori per i quali avevo accettato di essere lì. Le prime volte non ci dormivo la notte. Alla fine sono uscita».
La sua più grande delusione? «Ho avuto tante piccole delusioni. E, comunque, penso che sia il Pd ad aver abbandonato me, cioè a aver lasciato i valori e i principi della sinistra».
Lei se ne è andata perché è stata tolta la stepchild adoption dalla legge sulle unioni civili. Non è un po’ poco? «Quella è stata l’ultima goccia. Se un partito non è capace di portare avanti un principio base come l’uguaglianza tra bambini, che prescinde dall’orientamento sessuale dei genitori, quella non è più una formazione in cui ci si possa riconoscere. Vale lo stesso per la legge sulla continuità affettiva dei bambini in affido: abbiamo fatto una norma che finisce per introdurre discriminazioni. Sto aspettando che l’incostituzionalità di quella legge sia dichiarata dalla Consulta. Bel risultato».
Eppure in Parlamento c’era anche lei: non è riuscita a far nulla? «Provai a parlarne con Renzi, che mi rinviò alla Boschi. E lei disse che al Senato non c’erano i numeri. Fine del discorso. Più che cercare premier, ministri, presidenti e capigruppo che potevo fare?».
Si è sentita non considerata? «Mi sono sentita trattata come chiunque altro non occupi posizioni particolari all’interno del partito. E ho capito che gli accordi politici valgono più degli argomenti che si affrontano. Sull’affido, il capogruppo del Pd nella mia commissione, Verini, mi spiegò che la richiesta veniva direttamente dal partito: votarlo subito, senza modificarlo. “Ma chi è il partito?”, domandai. In realtà il provvedimento era di una senatrice, Francesca Puglisi, che è stata la vera incarnazione dell’incompetenza, e che tutte le volte che si è mescolata alla discussione ha fatto disastri».
Da premier, Matteo Renzi si è circondato delle persone sbagliate? «Un leader politico è come un direttore d’orchestra in cui ciascun musicista deve essere il migliore, nel suo strumento. A lui rimprovero questo: di aver scelto, tra tante persone brave nel Pd, non le più preparate, ma le più fedeli. Capisco che avesse paura di finire come Letta, di essere tradito. Ma è possibile che soltanto perché la signora Puglisi sedeva in segreteria e voleva avere il proprio nome su una legge, si sia chiesto a chi - da capogruppo - esegue i cosiddetti “ordini del partito”, di approvare una legge incostituzionale? È assurdo, ma è stato fatto».
E secondo lei è stato utile? «Il Pd sta pagando e pagherà il meccanismo che consiste nel credere che ci siano ancora capi bastone e capi corrente. Finché non si rende conto che non ha più presa sulla gente, continuerà a pagare. Poi per carità sono cose complicate, ci sono i pacchetti di voti, i territori: ma questo svilisce la politica, ed è inutile che ci si lamenti poi. All’inizio, mi ricordo perfettamente di un amico giornalista che mi disse: “Michela perché ti sei andata a sporcare il curriculum?”. Sporcare. Io continuo ad essere fiera di aver fatto questa esperienza, constato però la percezione che se ne ha. Molto triste».
Pensava che si potesse fare di più? «Io di vittorie in Parlamento non ne ho. Ho portato avanti delle cose, fino a dove ho potuto. Sono per esempio stata relatrice nella legge sul doppio cognome, che si è poi arenata al Senato. Alla Camera l’ho fatta votare nonostante le ostilità, e malgrado obiezioni che non pensavo potessero venire dalla sinistra. Un atteggiamento machista, paternalista, arcaico».
Si arrabbiò tanto con Nico Stumpo. «Non era solo lui, c’era tutto un pezzo del partito. Alcuni che venivano dai Ds, altri dalla Dc, motivi di fede, motivi ideologici. Il Pd si è spaccato su ogni tema etico: sistematicamente, sempre. Ognuno pensava di poter dire qualsiasi cosa. Ma a me non sono stati dati gli strumenti per fare di più. Chi riesce ad avere un impatto più forte è chi ha responsabilità parlamentari, o governative».
Bisognava essere presidente o capigruppo, oppure ministra e sottosegretaria? «Quando sei parlamentare semplice, arriva sempre un capogruppo, un vice capogruppo, un segretario d’Aula, che ti bloccano d’autorità. E non vai più avanti. Ma non è stata la mia vita, non lo sarà mai. Mi sono resa conto, pur essendo stato importante, adesso è diventato importantissimo fare fino in fondo il mio lavoro. Siccome il problema è culturale, devo fare quello per cui sono più brava. La Puglisi non sarebbe capace di tenere anfiteatri con quattrocento persone, io sì».
Da vicino la politica è«sangue e merda», per citare la dotta sintesi di Formica? «No, non lo penso. Bisogna mettere le mani in pasta, questo sì, non si può restare in una torre d’avorio. E lo dico anche rispetto agli intellettuali in genere; è qualcosa che chiunque si occupi di cose umane deve fare. Quelli che restano nella torre, non sentono il reale: ma se il compito degli intellettuali è far cambiare il mondo, bisogna sentire sul proprio corpo le cose. Bisogna farsi destabilizzare dalla realtà, in politica. Ed è questo che rimprovero ai politici: di non farsi toccare dalla realtà, non farsi mettere in discussione».
A Renzi, ben prima della sconfitta al referendum costituzionale, chiedeva: cambiare verso, ma “verso dove”? «Con lui questo processo è parso progressivamente sempre più evidente. Alle primarie 2013 lo avevo appoggiato, la struttura rigida del partito andava cambiata. Sembrava aria fresca, si è scollato dalla realtà, non ascolta più».
Ha mai provato a parlarci? «Sì, non sono riuscita. Ma non sono triste, né frustrata per non essere stata ascoltata. È stato importante essere una dei tanti. E da sempre l’intellettuale in politica è stato considerato come non capace di capire, di guidare. Mi piacerebbe tuttavia che un giorno gli specialisti di determinate cose siano ascoltati un po’ di più. E penso anche ad ambiti di cui non so nulla, come l’economia. Un tempo era più facile essere tuttologi, ora il mondo è talmente complesso che chi pretende essere tuttologo è un poveretto».
Qualcuno ha provato a trattenerla? «Speranza, Cuperlo, Lo Giudice e altri scrissero una lettera, altri erano contenti che me ne andassi. Qualcuno ha provato a dire che ero in cerca di visibilità: in quel momento sono proprio fuggita. Non sono come loro, non faccio qualsiasi cosa per andare in tv».
Lo scrittore Corrado Stajano, dopo la sua esperienza di indipendente nel Pds, si definì “straniero in patria”. Lei? «Straniera no, lontanissima sì. Negli ultimi mesi, la preoccupazione della maggior parte dei deputati erano le liste, in Aula era tutto un far capannelli in cui si parlava di collegi più o meno sicuri. L’interesse pubblico non era tanto presente. Era, piuttosto, individuale. E ristretto a una domanda: come faccio a ritrovarmi qui nella prossima legislatura?».