Un singolo post su Instagram può influenzare gli acquisti di frotte di seguaci. Ma in molti casi lo scopo commerciale, non viene comunicato agli utenti in maniera chiara. Ed è ormai è guerra aperta tra le star dei social e le organizzazioni di consumatori

Dura la vita degli influencer, dalle luci della ribalta ai riflettori dell’Antitrust. Sempre in mostra sui social network, veicoli promozionali in carne e ossa per grandi marchi di moda, viaggi, cibo, tecnologia. Una scintillante industria globale con una ricca filiera italiana. Le aziende li corteggiano perché un singolo post su Instagram - pagato anche 18 mila euro per i personaggi più noti, quelli con milioni di follower - può influenzare gli acquisti di frotte di seguaci. Tuttavia in molti casi lo scopo commerciale, nelle maglie larghe del marketing digitale, resta nascosto, non viene comunicato agli utenti in maniera chiara. Per questo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato li tiene d’occhio già da qualche mese, dopo l’esposto presentato da Unione Nazionale Consumatori e Codacons contro la pubblicità occulta nei post.

In molti indossano con nonchalance borse, occhiali da sole, tute da sci, capi firmati, senza però menzionare lo sponsor-inserzionista. È ormai guerra aperta tra le star dei social e le organizzazioni di consumatori. A luglio l’Antitrust aveva spedito lettere di moral suasion a sette influencer della fascia più alta (Fedez, Chiara Ferragni, Belen Rodriguez, Alessia Marcuzzi, Anna Tatangelo, Melissa Satta e Federica Pellegrini) e undici società titolari di brand famosi, sollecitando la massima trasparenza nei post promozionali, vale a dire l’aggiunta di hashtag come #advertising o altri analoghi, oltre al nome del marchio. Rischiavano sanzioni fino a cinque milioni di euro ma sono riusciti a sventare il pericolo e si sono adeguati alla richiesta, almeno per ora. Il primo round, infatti, si è concluso a favore delle star del web: l’Autorità ha archiviato l’esposto e si è dichiarata soddisfatta dell’effetto ottenuto, anche se il monitoraggio è destinato a proseguire.

Ha incassato la vittoria Fedez, giudice di XFactor, partner di Ferragni e influencer tra i più in vista, e adesso con una mossa conciliatrice auspica l’approvazione di una legge chiara con un decalogo per tutti: influencer, cantanti e calciatori.

Un po’ come negli Stati Uniti, dove l’istituto a tutela dei consumatori (Federal Trade Commission) e l’antitrust hanno stabilito una norma semplice e precisa: vanno segnalati chiaramente i post realizzati attraverso collaborazioni commerciali. Il che non vuol dire che tutti rispettino le regole: qualche mese fa la Ftc ha fatto recapitare più di 90 lettere ad altrettanti cantanti, celebrity, sportivi, chiedendo di evidenziare nei loro post sui social - in particolare Instagram, il più redditizio - il nome degli sponsor. In assenza di una legge specifica, in Italia invece si naviga a vista, applicando anzitutto il Codice del consumo (2005), che raccoglie tutta la normativa a tutela del consumatore, e la Digital Chart dell’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria, alla quale le aziende devono attenersi nel commissionare campagne agli influencer. A cui si aggiunge il recente intervento dell’Antitrust, giudicato però insufficiente dall’Unione Nazionale Consumatori, che pochi giorni fa si è rivolta di nuovo all’Autorità sottolineando che dopo la lettera di moral suasion non è cambiato granché: molti influencer continuano a pubblicizzare senza alcuna avvertenza vari prodotti, denuncia la Unc, mentre si moltiplicano i cosiddetti “microinfluencer” con poche migliaia di seguaci, ingaggiati da aziende e agenzie intermediarie.
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Nomi che non dicono molto al grande pubblico, come Eliana Cartella o le sorelle Nasti. «Continueremo a monitorare tutte le piattaforme digitali anche in futuro: non solo i personaggi molto conosciuti, ma anche soggetti noti tra gli addetti ai lavori, i microinfluencer, per rilevare eventuali violazioni del Codice del consumo», dice a L’Espresso il generale Giampiero Ianni, comandante del nucleo speciale della Guardia di Finanza che lavora in collaborazione con l’Antitrust. Il faro acceso dalle fiamme gialle, tuttavia, non sembra aver penalizzato le star dei social. Dopo l’entrata in vigore delle nuove regole, infatti, la popolarità di blogger e influencer è aumentata.
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E secondo Blogmeter, società che si occupa di ricerche e analisi nel campo dei social media, è addirittura esploso il numero di post con espliciti fini pubblicitari: se da marzo a giugno sono stati quasi 1.800 su 275mila i messaggi sponsorizzati, da luglio a ottobre il loro numero è lievitato a quasi 7mila su 245mila (più 285 per cento). Un incremento generale, secondo Blogmeter, in cui spicca l’influencer italiana più discussa del web, Chiara Ferragni, oltre 11 milioni di follower su Instagram. La fondatrice del blog The Blonde Salad ha più che raddoppiato il numero di post con gli hashtag della sponsorizzazione: da 39 (marzo-giugno) a 85 (luglio-ottobre).

Ma che tipo di rapporto economico si instaura tra influencer e sponsor? «Gli investimenti sono compresi in parte nei budget di pubbliche relazioni e ufficio stampa delle aziende, in parte nel budget della pubblicità», spiega Luca Conti, docente di Web marketing all’Università Milano-Bicocca, autore di saggi e curatore della collana della casa editrice Hoepli dedicata al mondo digitale. Il tariffario, se così si può dire, varia a seconda della notorietà del personaggio coinvolto.

«Si parte da un vantaggio economico non monetario offerto a un influencer di nicchia, fino a un compenso di 10mila euro e oltre per un influencer popolare», prosegue Conti. Sono proprio i microinfluencer l’avanguardia di questo settore, sui cui le imprese puntano per presentare un prodotto in anteprima, conoscere e intervistare chi l’ha creato, provarlo quando non è ancora disponibile, vivere una esperienza. Senza che il tutto venga percepito dai consumatori come una pubblicità. In linea generale, negli ultimi due anni le aziende sono diventate più selettive, sanno distinguere tra personaggi credibili e chi invece millanta un seguito a volte inesistente. Del resto follower, like e visualizzazioni su YouTube si possono sempre comprare.

«Dalle prime campagne con i blogger, pensate come evoluzione del rapporto con i giornalisti, oggi le relazioni sono più strette e consolidate. Quello che le aziende più evolute cercano, spesso affiancate da agenzie di relazioni pubbliche, è un rapporto continuo nel tempo. Non più operazioni mordi e fuggi ma un legame di lungo respiro che va al di là della singola campagna», aggiunge il professore.

Come si diventa influencer? Sono tutti autodidatti? Alessandro Marras, 34 anni, è uno dei travel influencer più seguiti d’Italia con quasi 150mila follower. Oggi quello dei viaggi è uno dei settori più promettenti, tanto che la rivista americana Forbes nel 2017 ha stilato per la prima volta la classifica “Top 10 travel influencers” con le star del web più pagate dagli sponsor - compagnie aeree, enti del turismo, catene di alberghi di lusso, brand di moda - per girare il mondo e raccontare la propria esperienza su blog, YouTube e social. A cominciare dal blogger irlandese Johnny Ward, 33 anni, che nel giro di pochi anni ha guadagnato un milione e mezzo di dollari. È diversa la storia di Marras, nato a Bolzano e residente a Milano: ha fatto tanta gavetta, lavorando prima nei villaggi turistici e come assistente regista nel programma tv “Alle falde del Kilimangiaro”, poi ha aperto il blog “I viaggi di Ale”.

«Da travel blogger sono diventato travel influencer e ho unito il mondo della moda a quello dei viaggi. È questa la mia intuizione», racconta Marras, appena rientrato da Zanzibar, già con la valigia pronta per gli Emirati Arabi Uniti, viaggio finanziato dall’ente del turismo di Dubai. Lo aspettano giornate fitte insieme a Federica, fidanzata e collega, scandite da video glamorous e fotografie patinate da postare sui social. «Il mio è un lavoro full time, anche di più. Ogni giorno ricevo due o tre proposte di collaborazione da parte di sponsor, ho la fortuna di poter scegliere. Il fattore determinante è la qualità dell’offerta commerciale, sono un uomo di marketing», aggiunge.

Ma quanto vale uno dei suoi video? «Fino a 5mila euro». E uno scatto? «Dipende, 6-700 euro l’uno su Instagram, che oggi in Italia è il social più redditizio. Poi ci sono i pacchetti a forfait, le tariffe variano a seconda del social». Accanto ai suoi post sponsorizzati l’influencer milanese aggiunge sempre l’hashtag #advertising, in linea con la richiesta dell’Antitrust, ma sull’utilità è piuttosto scettico. «Non ho problemi a metterlo. Il fatto è che arriveremo presto a una situazione paradossale: ora tutti scrivono #ad per dimostrare che hanno collaborazioni importanti». È un impegno a tempo pieno anche per Manuela Vitulli, 26 anni, travel blogger (“Pensieri in viaggio”) e influencer, seguita su Instagram da quasi 60 mila persone. Vive a Bari ma spesso è in giro per il mondo: dopo aver visitato Seul a spese dell’ente del turismo della Corea del Sud, a breve partirà per New York e Repubblica Dominicana.
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La travel influencer, laureata in Medicina e Chirurgia, lavora con un’agenzia di pubbliche relazioni statunitense, GoPro, che di volta in volta seleziona il professionista più adeguato da proporre ai clienti. Un mestiere nuovo a cavallo tra comunicazione, marketing e pierre, un sogno per le nuove generazioni. «Non amo molto il termine influencer perché in molti si attribuiscono un titolo che non corrisponde alla realtà. Ogni giorno ricevo email di ragazzi e ragazze che mi chiedono come ho fatto, la maggior parte però vuole sapere subito come si fanno i soldi. In pochi mostrano una reale passione».

Nel giro di pochi anni i blogger e poi i travel influencer, sempre più flessibili, hanno soppiantato i giornalisti di viaggio, decimati dai drastici tagli ai budget delle redazioni. Certo, si tratta di due mestieri diversi: da un lato c’è chi fa pubblicità a un prodotto con gli strumenti della comunicazione digitale, dall’altro professionisti e pubblicisti iscritti all’ordine dei giornalisti, che rispondono a un codice deontologico. Ma hanno una cassa previdenziale, l’Inpgi, in forte squilibrio, che chiuderà l’esercizio 2017 con una perdita prevista di 104 milioni. Colpa, tra le altre cose, dell’emorragia di posti di lavoro: 800 persi solo quest’anno, dopo gli oltre 2.700 dal 2012. Così si spiega l’appello rivolto dall’Inpgi, nella relazione di qualche settimana fa, all’Ordine dei giornalisti, in cui si chiede di «prendere finalmente atto che le forme di attività giornalistica non sono più quelle del 1963 e che sempre di più comunicazione e informazione sono due mondi che si sovrappongono e si parlano».

In molti hanno letto le parole del presidente dell’Inpgi, Marina Macelloni, come un auspicio per ampliare la platea dei contribuenti a comunicatori e influencer, per rimettere in sesto il bilancio. La scintilla di una inevitabile polemica. «Non intendevamo riferirci agli influencer, ma soprattutto agli uffici stampa della pubblica amministrazione non iscritti all’Ordine dei giornalisti», precisa Macelloni a L’Espresso: «Si tratta di circa 12.500 persone che non versano contributi all’Inpgi perché inquadrati come impiegati. Come ente previdenziale rischiamo di perdere figure professionali solo perché non riusciamo a definirle in maniera corretta». Oggi, infatti, possono versare i contributi solo gli iscritti all’Ordine, per cambiare le cose ci vorrebbe una legge ad hoc. Secca la replica del presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Carlo Verna: «Se l’Inpgi vuole allargare la platea contributiva a figure diverse dai giornalisti professionisti, è libero di farlo nel quadro della sua autonomia. Vale per gli influencer e per i comunicatori, se svolgono la loro attività in maniera trasparente. Ma non venissero a chiedere la tessera di giornalista».