Il capo-ombra del Viminale si chiama Matteo. Ma non è Salvini
Mentre il vicepremier gira l’Italia, twitta e si fa i selfie, il ministero dell'Interno è governato dal suo fedelissimo capo di gabinetto, Matteo Piantedosi. Ecco chi è
di Susanna Turco
5 ottobre 2018
Matteo aggiorna la sua pagina Facebook ogni due ore. Matteo bis ha inserito l’ultimo post pubblico due anni fa. Matteo detto «il Capitano» ha un diploma di liceo classico Manzoni di Milano e una vita trascorsa in politica. Matteo detto «Teo» si è diplomato al classico Colletta di Avellino, laureato in Giurisprudenza e ha passato la vita in prefettura. Entrambi, adesso, guidano il Viminale. Uno da ministro. L’altro da sua ombra.
La coesistenza dei due Mattei, evidente a chiunque conosca i meccanismi borbonico-spagnoleschi del Viminale, passa sottotraccia, per sua stessa natura, al resto del mondo. Eppure è uno dei segreti del - per così dire - successo di Salvini, la ricetta opposta a quella in cui si ingarbugliano i Cinque Stelle che si impuntano con gli apparati: lui, gli apparati, li abbraccia. O per lo meno li conferma.
Eccola la leva grazie alla quale il capo del Viminale e capo della Lega sfanga, sia pur tra velati imbarazzi di Palazzi e broccati, il doppio ruolo di ministro e leader politico. La chiave di volta è questa: affidarsi, farsi consigliare e piazzare infine nel ruolo i funzionari adatti al suo disegno, quando possibile addirittura lasciarli là dove le ha trovati.
Un esempio su tutti, un simbolo: il suo capo di Gabinetto, appunto. L’irpino Matteo Piantedosi, il Matteo bis, 55 anni, appassionato di bicicletta, sposato, due figlie, nidiata De Gennaro come il conterraneo Manganelli, ex prefetto di Bologna e vice capo della polizia, alle dipendenze dell’Interno da prima che cadesse il Muro di Berlino. Stimato da chiunque, in rapporti con il leghista Gianni Tonelli, segretario del Sap e nemico di Gabrielli, negli anni del governo Monti è stato portato su dalla ministra Annamaria Cancellieri che – dopo essersi trovata a lavorarci quando era commissaria a Bologna – ne fece un pezzo del suo contrafforte viminale, promuovendolo prefetto, suo vice capo di gabinetto, infine vice capo della polizia. Così bravo, Piantedosi, e trasversalmente stimato da prefetti, polizia, questori ed ex ministri che a un certo punto, accreditato invano come possibile successore di Pansa a capo della polizia, alla prima occasione è stato rispedito dal successore effettivo di Pansa, Gabrielli, di nuovo a Bologna – sempre con tanti complimenti e immensa stima – a ricoprire il ruolo di prefetto nella città dove, tra vari incarichi, aveva passato già vent’anni di carriera. Era già là, per dirne una, faceva giusto il capo di Gabinetto, quando Marco Biagi tentava invano di farsi ridare la scorta: e anzi fu proprio lui a ricevere il giuslavorista, che aveva chiesto un colloquio con l’allora prefetto Sergio Jovino.
Oggi Matteo bis, conoscitore degli ingranaggi viminali e di chi li muove - sposato peraltro con la viceprefetta Paola Berardino, sua collega nell'ufficio Affari legislativi del ministero nonché figlia del prefetto Berardino, già segretario del Cesis - Matteo bis dicevamo sa e gestisce tutto ciò che Matteo il ministro non sa, non conosce e, soprattutto, non vede perché non c’è. I due sono talmente complementari che da lontano sembrano uno solo. Il bino diventa uno: «Non c’è alcuna crepa», è infatti il messaggio trapelato anche nei giorni più difficili. Basti, quanto a perfetta sovrapponibilità, il caso Diciotti: la procura di Agrigento, decidendo in agosto di indagare Salvini per aver bloccato lo sbarco dei migranti, ha dovuto almeno sulle prime indagare anche Piantedosi. Visto che il ministro – manco a dirlo - aveva trasmesso a lui l’input di bloccare tutto. Da Matteo a Matteo bis. Via smartphone, come al solito. E, di conseguenza, con l’impercettibile ma autentica disperazione degli uffici preposti alla sicurezza delle comunicazioni del capo del Viminale (dovrebbe anche per questo essere presente nel suo ufficio, o almeno usare apparecchi più blindati: macché).
E insomma mentre Rocco Casalino, Luigi Di Maio e i Cinque Stelle in genere si lambiccano, sbraitano e s’impiccano nella guerra contro i tecnici brutti e cattivi, dal Ragioniere dello Stato alle burocrazie del ministero dell’Economia (non distinguendosi poi molto, a conti fatti, dal modo col quale Matteo Renzi si agitò a suo tempo), il leader della Lega ha perfettamente aggirato il sistema. Affidandosi, dicono, ai consigli dell’oggi deputato del Carroccio Tonelli, segretario del Sap. Il sindacato autonomo della polizia che ha il suo serbatoio di consenso proprio a Bologna, dove l’attuale capo di Gabinetto del Viminale ha navigato sin dai tempi dell’università, si è sposato ed è cresciuto.
Piantedosi c’era, per dire, nell’aprile 2014 a Rimini, durante il congresso del Sap nel quale si dedicò un’ovazione agli agenti condannati per l’uccisione di Federico Aldrovandi. E invece - ha tenuto a precisarlo in una delle rare interviste - non era ancora prefetto quando, a Bologna, il capo del Carroccio dovette essere protetto dal lancio di uova ed altre proteste: il rapporto con il leghista è nuovo, tutto costruito in questi pochi mesi, improntato all’entusiasmo del «si può fare».
Come il sole e la luna, i due Mattei si muovono all’unisono. Il ministro ombra non prende iniziative e non offre consigli politici: piuttosto controlla, previene filtra – chiuso dentro il Palazzo, seguendo la linea che gli viene data e muovendo gli ingranaggi che sa. Il ministro vero – è stato autorevolmente calcolato – ha passato lontano dal Viminale sessanta dei suoi primi novanta giorni di governo: tra sagre, feste, pranzi, inaugurazioni, da Caravaggio a Modica, da Milano Marittima a Pinzolo, da Consele a Lesina, da Monteroni D’Abia a Furci siculo, da Viareggio a Nerviano, a cavallo di moto d’acqua, palcoscenici, vassoi di fritti, selfie. Tutto il contrario di un Pisanu, di una Rosa Russo Iervolino, di un Minniti. Paradossalmente, si è seduto alla scrivania che fu di Giovanni Giolitti più che altro per aprire la busta contenente l’informazione di garanzia per sequestro di persona: per aprirla e leggerla in diretta Facebook davanti ai suoi tre milioni di followers. Ed è questa - l’iperfetazione dell’apparato comunicativo- una totale inversione, in un universo viminale nel quale per tradizione il ministro dell’Interno è uno che si mura vivo, dalle otto di mattina fino a notte fonda. Qualcosa di rivoluzionario, eversivo, visto con gli occhi del Palazzo sterminato, dell’apparato che, come disse una volta Claudio Scajola - uno che sa di cosa si parli - «è una struttura elefantiaca che tende a fare da sé, una macchina complessa, persino pericolosa, che può stritolare». «Dove se non stai con gli occhi aperti ti bruci», soggiunse il sottosegretario azzurro Alfredo Mantovano. Un posto dove l’anticamera del ministro reca appesa, vergata col pennino e l’inchiostro di china, la lista dei “Ministri dell’Interni dalla Proclamazione del regno d’Italia” – tutto un tripudio di dottori, avvocati, marchesi, salvo almeno nel Novecento l’unico predecessore di Salvini a non essere laureato come lui: Benito Mussolini.
Una ressa di volti che, almeno fino agli anni Novanta, sembrano foto diverse di una stessa persona: Tambroni e Fanfani, Scalfaro e Cossiga, Gui e Gava. Il ministro-Stato. E lì, tra corridoi, cordate, gruppi, equilibri, ministeri nel ministero, si realizza il gioco di prestigio di Salvini, che sorprendentemente governa per interposto Matteo. Come si conviene ai pesi del Viminale, il capo di gabinetto è una figura tutta diversa dagli omologhi degli altri ministeri: è più di un segretario generale,è l’uomo-filtro, quello che conosce le pieghe e le briciole, le rotelle e i motori. Insomma: «È quello che comanda» dice un ex ministro dell’Interno. «Soprattutto se il ministro non c’è»s, soggiunge un altro predecessore.
Ne sa forse qualcosa anche il prefetto Giuseppe Procaccini, sopravvissuto a tre governi prima di impattare nel 2013 contro Angelino Alfano e le sue assenze; costretto per questo – «perché così fa un uomo di Stato», come chiarì all’epoca – a prendersi ogni responsabilità nello scellerato affaire Ablyazov-Shalabayeva in cui era rimasto impigliato il leader dell’Ncd, e a dimettersi senza un fiato da capo di gabinetto, in luogo del ministro e omaggio alla tradizione. Ma ecco, se Procaccini assunse su di sé le mancanze dell’ineffabile Alfano, adesso in un capovolgimento totale pare proprio sia Matteo Salvini a godere dei frutti del lavoro ombroso di Matteo Piantedosi. Nell’attesa almeno che il posto di capo della polizia, adesso occupato da Franco Gabrielli, torni contendibile.