Implant Files

Protesi killer, troppe vite distrutte: e ora piovono le denunce

di Paolo Biondani, Gloria Riva, Leo Sisti   19 dicembre 2018

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Dopo gli articoli dell’Espresso, moltissimi malati testimoniano la loro drammatica esperienza di malasanità per  dispositivi medici difettosi e l’assenza dei dovuti controlli


Vite rovinate da congegni pericolosi impiantati nel corpo dei pazienti. Senza alcun controllo pubblico. L’inchiesta giornalistica Implant Files sta spingendo migliaia di cittadini, in tutto il mondo, a denunciare le loro drammatiche esperienze di malasanità. Storie di malati uccisi da valvole cardiache difettose, protesi tossiche, infusori di insulina che impazziscono, neuro-stimolatori che sprigionano scosse elettriche. Testimonianze di famiglie distrutte, di persone costrette a convivere con un dispositivo-killer sotto la pelle. Un’esplosione di nuove denunce, raccolte in Italia da L’Espresso, su uno scandalo sanitario globale, finora tenuto nascosto.

«Mi chiamo L.M., sono la moglie di una persona che ha avuto la vita rovinata da un device difettoso. Mio marito, affetto dal morbo di Parkinson dall’età di 46 anni, è stato operato nel 1997 all’ospedale Niguarda di Milano: gli è stato impiantato un apparecchio per la neuro-stimolazione prodotto dalla multinazionale Medtronic. La qualità di vita è stata eccellente per i primi cinque anni, finché, nel 2012, ha dovuto sostituire la batteria. Pensavamo a un intervento semplice, ma quando il neurochirurgo è uscito dalla sala operatoria, ci ha detto che si era trovato davanti una batteria sconosciuta, diversa da quella prevista, per cui necessitava di un adattatore. Già due ore dopo, mio marito ha cominciato ad avere grossi problemi: difficoltà di movimento e di parola, scosse in tutto il corpo. Veniva riscontrato un valore molto alto della cosiddetta impedenza, per cui sono stati convocati i tecnici della Medtronic, ma secondo loro non c’erano problemi, anche se mio marito stava malissimo. Dopo sei mesi terribili, è stato rioperato, questa volta al Policlinico di Milano, dove i neurochirurghi si sono resi conto che la batteria era stata avvitata in modo scorretto e hanno dovuto rimediare agli errori precedenti. Purtroppo le condizioni di mio marito sono peggiorate ancora: la batteria nuova, a causa dell’adattatore, è molto ingombrante. Questo gli provoca continui dolori, problemi di postura, notevole difficoltà a rimanere steso nel letto: di notte è costretto a dormire su un divano, per i forti spasmi alla spalla che il dispositivo gli provoca. Non abbiamo sporto alcuna denuncia, probabilmente sbagliando. E solo ora, dopo aver letto l’inchiesta Implant Files, ci rendiamo conto che problemi dello stesso tipo riguardano moltissimi altri pazienti».

Di regola i dispositivi medici (medical device) sono preziosi strumenti salvavita: moderne tecnologie che assistono e proteggono milioni di pazienti. Alcuni modelli però nascondono problemi gravissimi. Certi tipi di neuro-stimolatori, in particolare, si sono rivelati molto pericolosi: dal 2008 al 2017 sono stati registrati ben 447 casi di morte e 78.200 lesioni personali. Sono i dati ufficiali dell’agenzia pubblica statunitense Fda, rivelati dall’inchiesta del consorzio giornalistico Icij, di cui fa parte L’Espresso. Il problema di fondo è che tutti i dispositivi vengono impiantati nei pazienti senza controlli preventivi di autorità pubbliche e indipendenti: in Europa i produttori devono ottenere solo una certificazione privata, il marchio CE, da una società scelta e pagata dallo stesso fabbricante. I congegni difettosi vengono scoperti con anni di ritardo. E pochissimi ospedali sono in grado di identificare e contattare i malati che rischiano la vita. Nell’inerzia delle autorità, è il consorzio dei giornalisti ad aver realizzato la prima banca dati globale sulla sicurezza dei device, accessibile dal sito de L’Espresso: solo nella prima settimana, è stata utilizzata da 436.468 utenti di tutto il mondo. Mentre oltre 2.200 pazienti, medici e operatori hanno già inviato denunce circostanziate. Che rilanciano l’allarme: in Italia vengono impiantati anche dispositivi già dichiarati fuorilegge all’estero.

«Sono G.B. e avevo un cognato, ex atleta, colpito da una rara patologia cardiaca. Su Internet ha trovato una clinica privata italiana che prometteva di risolvere il problema con un device chiamato Cobra Fusion 150, prodotto dall’azienda Atricure. È un ablatore che entra nella cavità cardiaca e brucia alcuni tessuti per riportare il cuore alla normalità. L’operazione viene eseguita nel 2015 e va malissimo. Dopo dieci giorni, mio cognato viene colpito da un ictus e in poche ore muore. L’autopsia conferma che l’ablatore ha bruciato troppo, perforando l’esofago. Poi scopriamo che quel device era già stato richiamato dalla Fda americana. Quindi chiediamo notizie al ministero della salute. Che risponde: il dispositivo è certificato con il marchio CE, dunque è tutto in regola. Qualche mese dopo, il 28 settembre 2016, anche sul sito del ministero italiano compare l’avviso che il Cobra Fusion 150 non è pienamente sicuro. Ma intanto mio cognato è morto. E la procura competente ha già archiviato la nostra denuncia».

Altro dispositivo, nuovo disastro. «Mi chiamo C.F., soffro di diabete di tipo 1 dal 1980. Una decina di anni fa mi hanno impiantato il primo infusore di insulina, prodotto dalla Medtronic, che dava molti problemi di inserimento nel corpo, infezioni e ostruzioni. Quindi l’ho tolto e sono tornato alla vecchia terapia con le punture».

I dati degli Implant Files confermano che ai dispositivi di quel tipo, tra il 2008 e il 2017, sono stati collegati 742 casi di morte, 893 invalidità permanenti e oltre 61 mila lesioni fisiche.

«Dopo qualche anno mi hanno impiantato un altro micro-infusore, con un sistema di monitoraggio glicemico», prosegue il paziente italiano: «Anche questo era pessimo: ne ho cambiati tre in quattro anni. Nulla rispetto al mio nuovo infusore, chiamato 640G, che dovrebbe garantire lo stop a un certo livello di glicemia e il riavvio in caso di bisogno. Peccato che anche questo sia un bidone. Ho lavorato per anni in aziende ad alta tecnologia. E la mia esperienza mi fa ritenere che questo dispositivo sia oggetto di una sperimentazione in corsa: viene testato sulla pelle dei pazienti. In questi due anni, in cui ho dovuto convivere con il 640G, credo che l’aspetto più preoccupante, insieme alla rottura delle pompe, sia la continua modifica della parte informatica, il cosiddetto firmware, che mi hanno cambiato ogni volta che ho dovuto sostituire il micro-infusore. Cambiare firmware significa risolvere dei problemi del computer che gestisce il macchinario. Ciò mi inquieta: un dispositivo così delicato dovrebbe essere immesso sul mercato dopo aver testato la sua affidabilità e non modificato di continuo. Vi assicuro che molti altri pazienti italiani hanno gli stessi problemi, che emergerebbero solo se le Asl segnalassero tutte le sostituzioni. Mi chiedo se questi congegni siano il mezzo migliore per curare una patologia cronica che è una fonte inesauribile di guadagni per le multinazionali. Dal canto mio, sto meditando di tornare alle punture. Perché basterebbe un piccolo errore di queste macchine per portarmi alla morte».

I dati americani mostrano che questi nuovi tipi di infusori di insulina stanno creando disastri peggiori dei precedenti: 421 mila incidenti in dieci anni, con 1.518 morti e oltre 95 mila feriti.

Nei registri statunitensi dei vari dispositivi a rischio compaiono anche nomi di vittime italiane, come la signora M.S., 77 anni, morta nel dicembre 2016 sull’Isola d’Elba. L’Espresso ha accertato che il medico legale ha segnalato il decesso alla procura di Livorno, che ha aperto un’inchiesta, tuttora in corso. Alla paziente, nel 2012, fu impiantato un defibrillatore prodotto dalla St. Jude. Lo stesso colosso americano, il 10 ottobre 2016, ha segnalato al nostro ministero il «rischio di esaurimento prematuro della batteria» di una decina di device cardiaci dello stesso tipo (tutti «fabbricati prima del 23 maggio 2015», quando la multinazionale ne ha fermato la produzione). Solo dopo l’allarme dell’azienda, il ministero ha pubblicato l’avviso di sicurezza che avrebbe dovuto allertare tutta la sanità italiana. La Toscana, insieme all’Emilia, è stata una delle poche regioni che hanno avviato una campagna di controlli su 1.194 pazienti che avevano nel cuore quei defibrillatori. Molti altri però erano già morti. Come la signora dell’Elba.

Le denunce inviate dai pazienti a L’Espresso segnalano anche un altro problema italiano: l’impunità. I parenti delle vittime chiedono giustizia, ma la macchina dei processi troppo spesso gira a vuoto. Perfino per gli scandali più clamorosi.

«Mi chiamo C.B., sono la figlia della prima vittima italiana delle valvole-killer dell’industria brasiliana Tri Technologies, quelle che scoppiavano nel cuore dei pazienti. Mio papà è stato operato nel 2002 dal più celebre cardiochirurgo dell’ospedale di Padova. Operazione riuscita, dicevano. È morto undici giorni dopo. Era già tornato a casa, quella notte ha fatto in tempo a chiamare mia mamma, a dirle che stava malissimo. Abbiamo chiesto l’autopsia: la valvola era difettosa, gli era esplosa nel petto come una bomba, c’erano schegge ovunque. Poi si è scoperto che il cardiochirurgo aveva preso le tangenti dal rivenditore italiano di quelle valvole. L’imprenditore ha confessato, il chirurgo è stato arrestato, noi ci siamo costituiti parte civile con i familiari delle altre 33 vittime venete: cinque morti, tutti gli altri invalidi. Il tribunale penale di Padova ha condannato tutti e ci ha assegnato un primo risarcimento, spiegando che ci avrebbero dato molto di più in sede civile. Invece a Venezia la corte d’appello ha prosciolto tutti per prescrizione. E a quel punto l’ospedale di Padova ci ha chiesto di restituire l’unico rimborso che avevamo ottenuto in primo grado, con gli interessi e le spese processuali. Ci siamo opposti, ma i giudici civili finora ci hanno dato torto: dopo sedici anni aspettiamo ancora la Cassazione. Intanto ci hanno fatto i decreti ingiuntivi e i pignoramenti: per sospenderli, abbiamo dovuto firmare un impegno a non vendere niente. Ora mia madre ha paura che ci portino via la casa. Mio padre era un operaio della Sip, aveva 52 anni, era l’unico ad avere uno stipendio. Io avevo vent’anni e sono ancora prigioniera di una vicenda giudiziaria che mi sembra una follia. Tutte le perizie confermano che quelle valvole erano difettose, che hanno ucciso i pazienti o li hanno resi invalidi per sempre, ma nessuno è stato condannato. E adesso siamo noi, i familiari delle vittime, a dover risarcire l’ospedale».

Dopo questa segnalazione, abbiamo rintracciato anche la signora E.V., vedova del paziente che era diventato un simbolo per tutte le vittime delle valvole-killer: «Mio marito era rimasto paralizzato, per cui veniva in tribunale in carrozzella a seguire tutte le udienze. È morto dopo la sentenza di primo grado, non ha fatto in tempo a vedere come la giustizia ci ha preso in giro. Era un uomo brillante, generoso, attivissimo: la sua vita è stata distrutta, ha passato gli ultimi otto anni sulla sedia a rotelle, con un’ansia continua e dolori terribili. Avevamo due figli piccoli, io facevo la mamma, lui non poteva più lavorare: abbiamo speso tutto il primo risarcimento per cercare qualche cura. Ora l’ospedale di Padova ha chiesto anche a me di rimborsare i danni con gli interessi e tutte le spese legali, ma io non ho più niente. Ho trovato lavoro come cassiera in un supermercato, ma ho la paga pignorata: l’ospedale mi trattiene un quinto dello stipendio».

L’Espresso ha recuperato tutte le sentenze scoprendo che il marchio privato CE, con una giustizia schizofrenica, funziona anche come garanzia d’impunità. Lo scandalo delle valvole-killer si apre nel 2002 a Torino, con l’arresto di due luminari della cardiochirurgia. Il caso è identico: hanno intascato tangenti dallo stesso imprenditore di Padova per impiantare le stesse valvole difettose in decine di pazienti piemontesi. Un chirurgo confessa e patteggia, l’altro nega tutto. Vengono entrambi condannati in tutti i gradi di giudizio, insieme all’imprenditore, sia per corruzione che per la strage di malati. I giudici di Torino spiegano (e la Cassazione conferma) che c’è almeno un profilo di colpa medica: accecati dalle tangenti, i chirurghi hanno «distorto il loro potere discrezionale di scelta» imponendo le valvole brasiliane, anche se «sperimentali», al posto di quelle «collaudate da anni, sicure e meno costose». Nel processo di Padova cambia solo il chirurgo corrotto. E il tribunale arriva allo stesso verdetto. In appello però la corte di Venezia cambia linea: la corruzione c’è, ma non basta a provare la colpa medica. Il chirurgo corrotto poteva non sapere che le valvole erano difettose. Nel passaggio cruciale, la sentenza veneta conclude che «quei dispositivi avevano la certificazione CE, rilasciata dalla società Tuv di Monaco di Baviera», per cui «gli utilizzatori potevano presumere la sicurezza del prodotto». E le condanne definitive di Torino? Ignorate: come se i giudici di Venezia fossero vissuti su Marte. Ora le vittime attendono il verdetto finale, previsto in gennaio, sperando che la Cassazione civile, magari leggendo L’Espresso, possa capire i limiti del marchio privato CE e riportare la giustizia veneta sul pianeta Terra.

Nell’attesa, l’assurdità delle sentenze che in mancanza di colpevoli condannano le vittime ha smosso la politica. La Regione Veneto, che nomina i vertici dell’ospedale di Padova, ha varato un fondo di solidarietà per i pazienti pignorati. Che per ora resta una promessa: «Sono passati quasi due anni, ma non abbiamo ancora visto un soldo».