Ingrandimento

Stato-mafia, a trattare ci pensa Marcello Dell'Utri

di Lirio Abbate   30 aprile 2018

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Amico dei boss. E di Silvio Berlusconi. Ecco il suo ruolo secondo la ricostruzione dei magistrati di Palermo che hanno sostenuto l'accusa nel processo che si è concluso con la condanna a 12 anni per il fondatore di Forza Italia

Nella seconda metà del 1993, dopo l’arresto di Salvatore Riina e le bombe piazzate “in Continente”, i boss stragisti di Cosa nostra che hanno dichiarato guerra allo Stato valutano quale strada perseguire: attacco o mediazione. La decisione la prende Bernardo Provenzano, reggente della Cupola, che si assume la responsabilità di appoggiare il nuovo soggetto politico che sta nascendo: Forza Italia di Silvio Berlusconi. C’erano già stati contatti con Marcello Dell’Utri, ritenuto da Riina «persona seria e affidabile».

La ricostruzione è dei pm Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia che hanno sostenuto l’accusa nel processo per la trattativa Stato-mafia, concluso con la condanna di Dell’Utri a 12 anni. Con lui erano imputati i carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato aggravata. Portatori presso le istituzioni del messaggio dei clan, fatto di stragi e morti per indurre lo Stato ad ammorbidire la politica di contrasto a Cosa nostra.
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Trattano e parlano con i mafiosi attraverso Vito Ciancimino. Questo fino al 1992. Perché dall’anno successivo, con le bombe al Nord, il ruolo di “cinghia di trasmissione” tra clan e pezzi di Stato è ricoperto da Marcello Dell’Utri. Allora Silvio Berlusconi stava scendendo in campo, e si preparava a guidare il suo primo governo, che per i giudici, è stato condizionato dalle minacce mafiose. In cambio Cosa nostra avrebbe ottenuto vantaggi legislativi. Nella seconda metà del 1993, dunque, Provenzano si assume la responsabilità di appoggiare Forza Italia, perché ha avuto adeguate garanzie per risolvere i problemi di Cosa nostra: pressione giudiziaria, 41 bis, sequestro e confisca dei beni, normativa sui collaboratori di giustizia. Provenzano dice ai capimafia che entro sei-sette anni si sarebbe sistemato tutto per Cosa nostra. Ma era importantissimo che la mafia decidesse una tregua.

Inizia un’opera di reclutamento alla quale i boss contribuiscono - spiegano i pm - a favore della nuova forza politica che sta prendendo corpo. I canali di contatto con Dell’Utri provengono dal mandamento di Brancaccio guidato dai fratelli stragisti Giuseppe e Filippo Graviano.

Ma occorre fare un passo indietro. Dell’Utri, che di politica fino al 1992 non si è mai interessato, dopo l’assassinio di Salvo Lima si pone un problema: il gruppo Fininvest deve occuparsi più di politica. E lo fa proprio - secondo i collaboratori di giustizia - quando i rapporti della mafia con la politica entrano in crisi. È a quel punto che i capimafia chiedono a Dell’Utri di impegnarsi per procurare garanzie politiche per l’organizzazione. Uccisi Salvo Lima e Ignazio Salvo, Cosa nostra ha l’esigenza di avere un nuovo punto di riferimento politico. Il dialogo a distanza di Dell’Utri con i vertici della cupola si avvia attraverso il mafioso Vittorio Mangano. Il destinatario finale delle richieste è Silvio Berlusconi. Ed è proprio su questo punto che la corte d’assise condanna Dell’Utri; per aver veicolato il messaggio intimidatorio di Cosa nostra, pronta a continuare le stragi se non avesse ottenuto in cambio vantaggi legislativi. Il ruolo di Dell’Utri viene così proiettato nel 1994, durante il governo Berlusconi.
Secondo la ricostruzione dei pm Bagarella era a conoscenza fin dall’autunno del 1993 della discesa in campo dell’ex cavaliere e l’aveva appoggiata. In quel periodo il contesto politico è caratterizzato dalla presenza di un governo tecnico. E dopo gli attentati al Nord lo Stato per i pm cede, con la mancata proroga di oltre 303 decreti di 41 bis. Ma Cosa nostra vuole garanzie più ampie. Pretende che i benefici siano estesi oltre al carcere anche al versante della legislazione penale antimafia in merito alla modifica della normativa sui collaboratori di giustizia e sui sequestri dei beni.

I capi di Cosa nostra decidono di insistere nella realizzazione del folle piano di attentati, individuando il nuovo referente a cui trasmettere il messaggio. Il canale costituito da Dell’Utri viene scelto per la stretta vicinanza a Berlusconi nel momento in cui a Cosa nostra era nota la discesa in campo dell’imprenditore milanese.
Dalle intercettazioni dei boss emergono conversazioni nelle quali si sostiene che Dell’Utri conosceva la storia economica e imprenditoriale di Berlusconi, con allusioni a rapporti con esponenti mafiosi. Dell’Utri - è il calcolo dei boss - conosce l’origine del patrimonio dell’imprenditore, e può esercitare un potere ricattatorio.

Riina, intercettato in carcere, considera Dell’Utri un soggetto vicino a Cosa nostra, uno che con l’organizzazione si è comportato bene. E il pentito Salvatore Cucuzza dice ai pm di aver saputo da Mangano che Dell’Utri aveva assicurato che a gennaio del 1995 sarebbero state adottate misure legislative favorevoli alla mafia. Un precedente tentativo, che riguardava la correzione del decreto Biondi dopo che lo aveva firmato Maroni, non era andato a buon fine. Il decreto non venne approvato «perché Maroni si ribellò e, non so, forse, pure il capo dello Stato, comunque ci fu una grossa polemica». Al centro della discussione c’era la correzione di un decreto che portava alla modifica dell’articolo del codice penale sull’associazione mafiosa. Cucuzza racconta che questi “aggiustamenti” venivano richiesti durante il governo Berlusconi.

Il collaboratore ricorda che verso la fine del ’94 Mangano, di ritorno da un incontro con Dell’Utri, riferì che per gennaio ’95 erano attese nuove normative, che avrebbero avuto dei profili vantaggiosi per i boss.
Per quanto concerne il decreto Biondi, le notizie - spiegano i magistrati - erano state date in anteprima, al punto che Mangano aveva suggerito delle modifiche, mentre gli ulteriori interventi legislativi, previsti per gennaio ’95, avrebbero riguardato altre richieste di Cosa nostra. Mangano - dice Cucuzza - ricordava a Dell’Ultri che agiva nell’interesse di Cosa nostra, e che la sua azione non solo mirava ad apprendere informazioni anche riservate su decreti legislativi che potevano favorire la mafia, ma soprattutto serviva a rappresentare la pressione dell’organizzazione. Tanto che, ricordando il sostegno nella campagna elettorale, ripeteva al suo interlocutore: «Noi ci siamo interessati, voi cosa fate per noi?».