Il caso

Il re della soia? È l’ex di Tangentopoli. Ecco il tesoro offshore di Carlo Sama

di Paolo Biondani e Leo Sisti   17 luglio 2018

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Nei Panama Papers spunta l’ex manager Ferruzzi-Montedison: condannato per lo scandalo Enimont, oggi è un big dell’agricoltura in Paraguay. Dove la sua nomina a console onorario diventa un caso: i suoi avvocati tentano un blitz in un giornale per bloccare le notizie. E nelle intercettazioni torna anche Sergio Cusani

«Exigen che no se publique», vietato pubblicare. Con questo titolo Abc Color, uno dei giornali più letti del Paraguay, denuncia, il 23 giugno scorso, che due avvocati sono piombati in redazione nel tentativo, fallito, di censurare una notizia. Il cliente dei due legali è un ricco signore italiano che controlla una fortuna in Paraguay, ma non tollera di vedersi collegare a una società offshore svelata dai Panama Papers. Il suo nome è Carlo Sama. Il giornale scopre che ha ottenuto la carica di console onorario del Paraguay, quindi chiama L’Espresso per sapere chi sia. La risposta è facile: è un big di Tangentopoli.

Sama è il manager del gruppo Ferruzzi-Montedison che nel luglio 1993, dopo il suicidio di Raul Gardini, ha confessato «la madre di tutte le tangenti»: 157 miliardi di lire (ai valori odierni, 136 milioni di euro) versati fino al 1992 a decine di politici italiani di tutti i partiti di governo dell’epoca. Nell’autunno ’93 lo stesso Sama ha confermato di aver versato 200 milioni di lire anche alla Lega di Umberto Bossi, poi condannato ma tuttora senatore del partito di Matteo Salvini. Ai cronisti del Paraguay, i due legali intimano di non nominare nemmeno la società Agropeco, presieduta dallo stesso Sama, minacciando azioni legali. A quel punto Abc Color chiede le carte di Mani Pulite: da Milano arrivano le confessioni di Sama e la sentenza definitiva che nel 1998 lo ha condannato a tre anni di reclusione. Quindi il giornale scrive tutto: offshore e passato del «console».

Nominare la società Agropeco in Paraguay vuol dire toccare una delle potenze agroindustriali del Paese, che affonda le radici nell’impero fondato tra Ravenna e Sudamerica da Serafino Ferruzzi, il padre di Alessandra, moglie di Carlo Sama, e di Idina, la vedova di Raul Gardini. Oggi Agropeco possiede 16 mila ettari di terreni: colture di soia e allevamenti di bovini per «una carne mas natural». Sama ha definito il Paraguay «un paradiso per gli investitori stranieri». E qui ha trovato amici potenti, come Don Juan Etudes Afara, vicepresidente del Paese fino allo scorso aprile, e il presidente in carica, Horacio Cartes, che nel novembre 2016 l’ha nominato console onorario a Montecarlo. Dove Sama ha da anni la residenza legale, con la famiglia, in Boulevard d’Italie.
L’Espresso ha esaminato decine di atti che confermano il ritorno di Sama nel pianeta offshore, con nuovi particolari.

La società si chiama Miung Development Sa, ha sede a Panama ed è stata costituita il 2 gennaio 2008. I titolari sono anonimi: il capitale nominale di 10 mila dollari appartiene a chi ha in mano un certificato azionario «al portatore». In Italia l’anonimato è vietato dal 1990. A Panama invece neppure lo studio Mossack Fonseca, che amministra la offshore, sa i nomi degli azionisti. Le carte però svelano chi controlla i soldi: il 31 marzo 2008 la neonata società panamense nomina due «procuratori» con pieni poteri di «vendere o acquistare beni in qualunque parte del mondo»: Carlo Sama e Alessandra Ferruzzi.

A tenere i rapporti con Panama, all’inizio, è una funzionaria di Ginevra della banca Hsbc. Nel 2011, dopo lo scandalo della lista Falciani, la Miung cambia agente: alla banca svizzera subentra una società di Montecarlo, Cogefi Sam, che ha sede in Boulevard d’Italie 27, a pochi metri da casa Sama. Della Miung si occupa, da allora, il funzionario Alberto Faraldo Talmon. Tra il 2016 e il 2017 la situazione precipita. A Genova viene arrestato un dirigente chiave della Cogefi, Angelo Bonanata: è accusato di aver nascosto all’estero oltre 90 milioni di euro prestati dalla banca Carige alla famiglia Orsero. E il 10 marzo Talmon comunica a Mossack Fonseca di voler trasferire la Miung, «al più presto possibile», in un altro studio di Panama, Pardini & Asociados. Undici giorni dopo, Mossack Fonseca gli chiede di rispettare le norme anti-riciclaggio varate dopo i Panama Papers: l’agente di Montecarlo deve indicare «il beneficiario» della offshore e chiarire «l’origine dei fondi». Intanto a Panama scoprono che il «procuratore» della Miung è stato condannato per Enimont. A quel punto Talmon spedisce il passaporto di Sama, ma chiede di annullare la procura. E il 4 aprile 2017 manda un’email di fuoco: «L’unica attività della Miung è possedere immobili a Monaco. Tutto qui: nessun conto bancario. Quanto al signor Sama, sono storie vecchie e ora è tutto finito! La società va trasferita oggi. Altrimenti avvieremo un’azione legale contro il vostro studio».

Per Mossack Fonseca il rapporto si chiude qui. E la Miung passa allo studio Pardini.

Ora, per replicare ai Panama Papers, Carlo Sama ha comprato una pagina di pubblicità su Abc Color, dove definisce «infamie» gli articoli sulla Miung. Spiega che al processo Enimont è stato condannato per finanziamento illecito dei partiti, non per corruzione. Precisa che i giudici di Bologna gli hanno concesso la cosiddetta «riabilitazione», che cancella le pene accessorie di una condanna ormai scontata. E pubblica un certificato legale di Montecarlo, trasmesso in Paraguay, dove si legge che «Carlo Sama non ha alcun precedente penale».

Sama non è l’unico reduce di Tangentopoli che è tornato agli affari. Una serie di intercettazioni del 2014, depositate a Milano nel processo Eni-Nigeria, documentano incontri e telefonate tra Sergio Cusani, lo stesso Sama e l’ex faccendiere craxiano Ferdinando Mach di Palmstein. Il progetto era di comprare una società di appalti petroliferi di Ravenna, partecipata dal gruppo statale Saipem, per rivenderla a un miliardario nigeriano, chiamato in codice «Kk» o «lo scuro». Un aggancio curato da Vincenzo Armanna, l’ex manager dell’Eni ora imputato per le tangenti in Nigeria, che sognava di dividersi una mediazione del cinque per cento. L’affare è saltato perché il ricchissimo imprenditore africano non si è fidato degli italiani.