Questo Paese ha un debito di verità con le vittime della strage di via D'Amelio
Se la giustizia ha fatto il suo corso ora tocca alla politica. Che ha il dovere di scavare per far venire fuori le risposte alle troppe domande rimaste
di Lirio Abbate
17 luglio 2018
La magistratura a distanza di 26 anni dalla strage di via D'Amelio ha fatto la sua giusta parte, spazzando via indagini e sentenze marce, inquinate da “farlocchi” collaboratori di giustizia, da inchieste dubbie e procedure al limite dell'illegalità. Con quel modo sbagliato di procedere si è mancato di rispetto alla memoria delle vittime del 19 luglio 1992 quando un'autobomba uccideva il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, e gli agenti della polizia di Stato Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli.
È rimasto vivo il poliziotto Antonino Vullo, che in questo video che L'Espresso pubblica, racconta l’incubo di quel giorno. [[ge:rep-locali:espresso:285320960]] Oggi però la magistratura, e gli investigatori che hanno avviato nuove indagini, ci hanno dato dimostrazione che si può ancora avere fiducia nella giustizia. Se si è arrivati a scompaginare sentenze ormai passate ingiudicate, a trovare le prove “nascoste” per anni, e far emergere come è stato disatteso “il metodo Falcone”, oltre ai magistrati e agli investigatori il merito è anche del lavoro svolto dagli avvocati che si sono costituiti parte civile e che in passato hanno difeso alcuni degli imputati della strage, la cui posizione è stata “revisionata”.
E dunque, se la giustizia ha fatto il suo corso, e come sappiamo le aule dei tribunali hanno spesso un loro limite, adesso chi deve proseguire per trovare la verità è la politica. Le indagini giudiziarie hanno limiti, regole e termini precisi oltre i quali non si può sconfinare rispetto ai ristretti argini del processo penale, che è diretto ad accertare singole responsabilità. Questo non significa rinunciare alla giustizia dei tribunali. Vuol dire invece che è arrivato il momento di sostenere nei fatti che la sede naturale in cui cercare la verità storica complessiva sulle stragi è quella politica. Spetta proprio alla politica scavare per far venire fuori le risposte alle tante domande rimaste ancora appese che portano a interrogarci su chi ha progettato questo depistaggio.
Perché 57 giorni dopo la strage di Falcone, Cosa nostra è stata mandata a uccidere un altro magistrato impegnato nella lotta alla mafia? Perché tanta fretta? Chi ha fatto sparire l'agenda rossa di Borsellino? Chi ha suggerito le dichiarazioni ai falsi pentiti spostando così il fuoco delle indagini su un gruppo di persone innocenti? E poi ancora tanti altri interrogativi.
A distanza di 26 anni dalle stragi di Falcone e Borsellino possiamo dire che la mafia stragista dei corleonesi è stata sconfitta e l’impunità su cui fondava la sua forza attrattiva è rimasta soltanto nel ricordo nostalgico di tanti capimafia che invecchiano all’ergastolo. Tuttavia, sulla campagna di destabilizzazione realizzata per mano corleonese restano ombre e interrogativi che i processi non hanno chiarito nonostante l’impegno profuso dalla magistratura, specie negli ultimi anni. Paolo Borsellino C'è sempre da sperare che almeno qualcuno dei protagonisti, diretti o indiretti, o soltanto testimoni del perseguimento di quegli interessi di personaggi esterni a Cosa nostra, finalmente contribuisca a far luce sulle pagine buie della storia italiana. Si deve fare perché tutto ciò riguarda la dignità di questo Paese che, ora, ha un debito di verità.