Attualità
luglio, 2018

Viaggio a Terni, dove la Lega si prende il consenso operaio e la sinistra si ossida

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La città dell'acciaio volta le spalle al Pd per abbracciare il Carroccio. Il segretario Cigl: «È stato un voto di vendetta, xenofobo, soprattutto nei quartieri popolari»

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Prima che riesca a trovare un operaio che vota a sinistra, di tempo ne trascorre tanto, troppo, per essere davanti alla mensa delle Acciaierie Speciali Terni, un tempo il cuore rosso e operaio della città: «Io sono Emanuele e ho votato Potere al Popolo. Qui la sinistra è stata vista come la classe conservatrice e Salvini come il cambiamento. Eravamo la Manchester italiana ora viviamo con il terrore della delocalizzazione». Prima che giunga questa sorta di solitaria particella di sodio sperduta come quella dell’acqua minerale, annoto tutti gli altri.

Ne emerge un potente voto operaio di destra, uno schiaffo in faccia alla sinistra, verso cui esprime distacco e disprezzo. Per capire come la destra abbia espugnato Terni, non si può ignorare che la giunta di centrosinistra, guidata dal sindaco Leopoldo Di Girolamo, ha condotto la città al dissesto finanziario: «Eravamo considerati un buon governo un po’ conservatore», commenta amaro Gianluca Rossi, ex-senatore dem, «quando c’è stato anche un grande peggioramento della classe dirigente e della qualità del governo locale siamo stati visti solo come un ceto politico abbarbicato al potere. I nostri elettori ci hanno spazzato via votando Lega». E così diventa sindaco di Terni con il 63 per cento dei voti contro il candidato del M5S (il centrosinistra non è neppure arrivato al ballottaggio) il leghista Leonardo “Lallo” Latini.
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Visito l’Acciaieria, guardo le manovre dei carropontisti, lo spostamento della Siviera, il gigantesco contenitore su cui rosseggia la criniera dell’acciaio fuso, scruto le foto storiche degli operai delle Acciaierie: volti di contadini divenuti operai, solcati da rughe scavate da sole fatica sudore, vestiti di abiti logori, cappellacci e zoccoli di legno. Li chiamavano i “metalmezzadri, per il rapporto che avevano mantenuto con la terra anche una volta entrati in fabbrica. Ed ecco ora davanti a me questi volti di oggi, tute ignifughe, caschi, scarponi di sicurezza, barbe corte e sagomate, tatuaggi e orecchini, il fisico curato. Magari sono i figli o i nipoti di quelli che c’erano prima. Sono cambiati loro, è cambiata la fabbrica, è cambiato il mondo attorno alla fabbrica.

È qui che si forma l’onda della destra a Terni, in questa fabbrica la cui proprietà è dei tedeschi della Thyssen Krupp. Nel complesso, a Terni, il tasso di disoccupazione è al 9,7 per cento appena due punti sotto la media nazionale. La fabbrica dell’acciaio passa dai circa 11 mila dipendenti negli anni ’80 ai 2.600 di oggi. Anche se con le aziende “terze” e l’indotto i numeri sono più grandi, la fabbrica dell’acciaio perde la sua centralità in un tessuto economico che non ha più la forza di un tempo. Tuttavia, non è da una dinamica interna all’azienda che sale la rabbia che si esprime nel voto. Non è contro “i padroni” che si scaglia.

Dice Daniele: «Io ho votato M5S perché sinistra e destra mi hanno stancato...». Ecco Francesco: «Prima votavo scheda bianca, ora ho votato Lega perché gli immigrati sono troppi, fanno quello che vogliono, creano disagi: il pugno duro, ecco cosa ci vuole». Spiega Giulio: «Io ho votato Lega per il cambiamento. Siamo stanchi di anni di governo di sinistra che ha governato sempre. Il centro è occupato dagli immigrati e i negozi chiudono».

«Erano una cupola a vantaggio di pochi: senza la tessera del Pd in tasca a Terni non si lavorava», dice Emanuele Fiorini, ex-operaio delle Acciaierie e consigliere regionale della Lega, l’uomo cui Matteo Salvini affidò quattro anni fa il compito di scalare l’Everest. Di Fiorini restano in rete veri e propri must: «La Germania di oggi, con la sua guerra economica contro l’Italia ha fatto più morti del nazismo» e poi, la richiesta al Parlamento europeo di «misure antidoping (ma voleva dire antidumping ndr) contro la Cina». «Ci sono quartieri dominati dagli spacciatori», tuona, «tre omicidi in tre mesi. L’ultimo episodio è stato uno stupro commesso da un sudafricano». Obietto un po’ sorpreso: un sudafricano a Terni? «Ho detto sudafricano? Aspetta che controllo su Internet… ah… era nigeriano, ma sempre nero, no? Qua ci sono 16 mila immigrati regolari solo in città… e poi tutti gli altri irregolari…».

I dati che Fiorini sciorina sono ben distanti dalla realtà: secondo i dati del Comune gli stranieri regolari residenti a Terni sono circa 12 mila, in grande maggioranza rumeni e dal 2000 hanno fatto risalire la curva demografica; i richiedenti asilo 413. Nessuna invasione, dunque, anche se qui uno scippo o una rissa fa rumore e colpisce una città abituata alla tranquillità, soprattutto dopo lo choc del 2015 quando Davide Raggi, un giovane volontario del 118 molto benvoluto in città, fu ucciso in modo orribile da Amine Aassoul, un immigrato marocchino irregolare squilibrato e ubriaco che gli recise la gola. Un episodio atroce, ma non un’emergenza. Come mai allora questa “narrazione” securitaria prende piede nella Terni operaia? Nevio Brunori, ex-operaio, ex-delegato Fiom, un pezzo di storia delle Acciaierie: «Purtroppo io penso che l’Italia sia diventata un paese razzista: ho sentito tanti miei ex-compagni, elettori di sinistra, che hanno votato per Salvini. La sinistra si è allontanata dal popolo operaio, ma l’operaio non è scemo, anche quando vota Lega. È disilluso. Io alle ultime comunali al primo turno non sono andato a votare perché non so più dov’è casa mia».

Attilio Romanelli, segretario Cgil Terni: «C’è una netta separazione tra rappresentanza sindacale e rappresentanza politica. Fuori dalla fabbrica c’è un altro mondo, e si esprime un voto di vendetta, xenofobo e illiberale, soprattutto nei quartieri popolari». Dice Cesare Damiano, ex-dirigente Fiom, ex-ministro del Lavoro nel governo Prodi, attualmente parlamentare dem, sconfitto alle ultime elezioni politiche nell’uninominale dal candidato del centrodestra Raffaele Nevi: «In una ricerca condotta dall’Associazione Lavoro-Welfare risulta che in Italia, mentre nel 2010 il 30 per cento dei lavoratori intervistati si sentiva non rappresentato, la percentuale è esplosa al 70 per cento nel 2018. Abbiamo parlato di fine delle ideologie, abbiamo teorizzato la fine della distinzione tra destra e sinistra, abbiamo anche noi contribuito a distruggere i corpi intermedi.In un’epoca contraddistinta dalla paura il risultato è che una fetta di classe operaia è diventata la base di massa del sovranismo di destra, del resto anche il fascismo fu spinto da un forte consenso operaio e popolare. Come diceva Bauman: se la politica si occupa solo di bilanci perde l’anima...».

Spiega Alessandro Portelli, che ha insegnato letteratura americana all’Università la Sapienza di Roma, è presidente del circolo Gianni Bosio, e ha scritto per Donzelli il volume dedicato a Terni “La Città dell’Acciaio. Due secoli di storia operaia”: «Hanno provato a riconvertire Terni con la cultura ma la ricerca di un’alternativa alla centralità della fabbrica (esemplificata da Roberto Benigni che trasforma il Papigno, sede del vecchio polo chimico, negli Studio’s dove ha girato “La Vita è Bella” e “Pinocchio”, poi venduti a Cinecittà e oggi sottoutilizzati ndr) resta una parentesi. E allora, se recidi ogni legame della città con la sua storica identità operaia senza riuscire a costruire un’alternativa finisci con il diventare una periferia di Roma o di Perugia, e scattano le dinamiche tipiche delle nostre periferie: se nessuno dice più prima gli operai, ci sarà qualcuno che vincerà dicendo prima i ternani».

È molto più di un fatto politico: un gigantesco slittamento di senso che disorienta frantumando le vecchie certezze. Gli operai che oggi inneggiano a Matteo Salvini, trascinati dall’onda dei social network e affascinati da discorsi rozzi e feroci sono gli eredi di quelli che portarono il loro casco ai funerali dell’ex-presidente della Camera, Pietro Ingrao. Il leader della sinistra comunista era legato agli operai dell’Acciaieria da un legame speciale, forgiato in quei comizi che - chiunque ne abbia ascoltato uno lo sa - stabilivano un’empatia, creavano un flusso sentimentale che attraversava i corpi come una scossa e gli operai sentivano allora quella politica come una cosa che apparteneva loro e non si sentivano più soli dinnanzi al mondo.
Matteo Salvini con il sindaco leghista eletto a Terni

Sostiene Mario Tronti, filosofo, padre dell’operaismo italiano ed ex-senatore dem: «Gli operai sono molto concreti e poco metafisici, pensano alle condizioni salariali e di lavoro. Io sono leninista - aggiunge con un velo d’ironia - la coscienza viene dall’esterno, dal partito politico cui i ceti deboli si rivolgono per essere protetti, tanto più quando, come oggi, il conflitto non sembra essere più operai contro padroni, ma deboli contro potenti. La semplificazione della nuova destra, lontana dal nostalgismo fascista dell’Msi, è vincente perché la forza di sinistra ha dimenticato che oltre che essere di sinistra bisogna essere, appunto, soprattutto una forza cui gli operai possano affidarsi per essere difesi. È un processo lungo, che non nasce negli ultimi anni. In questo senso Terni è più di ogni altra città il paradigma della scissione tra una sinistra esangue e gli operai».

Eugenio Raspi è invece l’altro destino operaio. Se il capataz leghista Fiorini, lasciata la fabbrica, è diventato il simbolo di questo slittamento della coscienza operaia verso la semplificazione populista, Raspi è, all’opposto, la ricerca di una nuova coscienza attraverso la complessità della scrittura letteraria. Finalista al premio Calvino e al premio John Fante opera prima con il suo bellissimo romanzo “Inox”, edito da Baldini e Castoldi, oggi Eugenio frequenta un corso di formazione e spera di potersi reinserire nel lavoro. Il suo romanzo è la storia di una squadra di operai nel contesto del mutamento dell’Acciaieria. «Nel crogiolo arroventato si tuffa il mix di rottami in uno sciame di scintille e fiamme», racconta descrivendo un momento del processo produttivo. Il romanzo narra le vite nude degli operai nel tempo della crisi della politica, gli intrecci umani e professionali, le loro miserie e le loro virtù. Le lotte, la vita, le scelte, persino i rapporti tra fratelli sono determinati dalla condizione di fabbrica, ma questa non basta più a dare senso alla vita, futuro, coscienza politica. Il suo è, dice Alessandro Portelli, «il romanzo della solitudine operaia».

«Nell’attesa di un lavoro, ho scritto dell’attesa e del lavoro», aveva scritto Eugenio in una lettera a Concita De Gregorio su Repubblica, il 5 maggio del 2017. «La mia esperienza mi dice che se perde valore il lavoro si perde anche la connessione tra la sinistra e il lavoro», racconta oggi, «in acciaieria l’identità scaturiva dall’attaccamento al lavoro e dal mito del lavoro ben fatto. Oggi è tutto cambiato: si è spezzata l’identità tra l’operaio e il prodotto del suo lavoro mentre la sinistra si è allontanata dalle condizioni materiali degli operai. E così, in un territorio stanco ci si affida non a chi offre soluzioni, ma a chi rappresenta una valvola di sfogo per la propria rabbia. Un consiglio alla sinistra? Fare come si fa in acciaieria, dove l’acciaio si produce rigenerando vecchi materiali. Se questo lavoro non lo fa la sinistra, se non riparte dal basso facendo sentire gli operai parte di questa rigenerazione, gli operai si sentono semplici rottami e vengono attratti dalla prima calamita che incontrano».

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