Nell’anno di quel signore, il 1993, egli disse: «C’è una cosa che mi piace fare più di tutte!». E lo seguimmo, dietro il suo Vespino, una sagoma puntuale in maniche corte, che girovagava con il caschetto iconico bianchissimo, in quel miele luminoso così romano e così sfinente: era il mio regista preferito e costringeva lo sguardo a commuoversi tra Spinaceto, Casal Palocco, Vigne Nuove. Il suo tour nelle periferie era un bilancio esistenziale, uno choc preternaturale, una protesta contro l’ignominia, un atto di amore avventato, condotto sulle note di Leonard Cohen e del Köln Concert di Keith Jarrett.
Nel 1993 io ero un mica tanto splendido ventitreenne, il mio diario non era per niente caro, risiedevo belluino nella periferia sud e feroce dell’altra capitale del Paese, che in quei giorni perdeva il supposto primato morale. Nessuno desiderava mettere piede in quella Interzona, dove si prosperava senza più l’assistenza della sezione comunista o contando sulle opere di bene di parroci vaticanosecondi. Era la desolazione fatta geografia. Eppure qualcuno venne anche lì, in quell’anno. Tra quella perduta gente, dove mi formavo io, giunse non il flâneur Nanni Moretti, bensì il giornalista più militante d’Italia, Giorgio Bocca. Arrivò per descrivere lo sfascio architettonico e umano, percepito con i suoi occhi da eterno reduce di guerra e rilasciato in forma di dolente canto. Il libro, a cui Bocca stava lavorando, si intitolava “Metropolis”, indagava Milano nella sua periferia più emblematica: un hinterland interno, un ossimoro urbanistico e antropologico. Si chiamava e si chiama Calvairate, uno dei più grandi quartieri popolari della città, coi casamenti Aler approntati dal Fascio negli anni Venti e l’immenso macello comunale ormai svuotato e l’ortomercato in quei giorni sotto inchiesta per infiltrazione mafiosa. Una succursale importante di Tangentopoli, del tutto priva di quella luce meridiana e italianissima, che infossilisce ed esalta anche la più aberrante bruttura architettonica. Bocca era l’estremo corista di una tradizione tutta nazionale. La periferia come terra incognita, area da indagare e da scavare nei suoi pertugi tossici, riattivando il pasolinismo più struggente, è sempre stata una scelta poetica su cui applicare lo sguardo italiano. Affacciarsi sul “triste buco” è una tentazione tutta nazionale, che va da Dante in visita il Cocito fino a noi.
In un quarto di secolo qualcosa però è mutato. Non la periferia, che resta una compiuta e didascalica mostra delle atrocità. Sono cambiati i reporter dell’orrore, diventati turisti orrendi. Accelerando l’epoca, e l’Italia stessa, il margine metropolitano è addivenuto una Fantasilandia della bruttura, uno zoo affollato di bestie da soma e da normodotazione, un viaggio esotico nel ragguardevole, che lava la cattiva coscienza dell’animalità postborghese. L’enfasi sulle periferie, così diverse e neorealiste, alimenta un turismo da mezza giornata, spesa ad ammirare casamenti sconci, a interrogare l’associazionismo di confine, a informarsi sull’enogastronomico più pittoresco. Puntate estemporanee, per farsi una moralità, per dire che si è toccato con mano il popolo, che si è vissuti qualche ora sociologica, estetica, civilmente edificante.
È un’epidemia di benestanti in visita pelosa. Un’ipocrisia sociale matura i suoi livelli di indegnità. Si moltiplicano i tour a Scampia. Si consumano quelli hipster in Vespa, con partenza dalla Triennale, per andare ad ammirare l’abominio architettonico dei margini milanesi. Ci si reca a sfruculiare l’incomprensibile giardino del paesaggista filosofico Gilles Clément, allo Zen di Palermo. Tutti amici risanati, tutti spettatori di ciò che si va a vedere perché non lo si vuole guardare. E’ un turismo diversamente supplice, rispetto alle calate in pullman verso il santuario di Padre Pio, con annessa presentazione di batterie di pentole e materassi. Qui le stimmate sono ferite suppuranti e i materassi sono chiazzati e dismessi all’angolo dei vicoli ciechi. Si pensa di a sorseggiare l’amarone in luogo dell’amarezza. Si percepisce che la vita vera avviene qui, in questo esotismo impuro, tra rapper ubiquitari, che registrano in cantine insonorizzate, modulando i loro lied tra rime spietate, con cui eccepire alla propria condizione di base ed esprimere un disagio di cui vanno fieri – tossicume e rissa, povertà reale contro pauperismo percepito, desertificazione dei diritti e tanta voglia di sfondare talentuosamente con un fattore X. Questo spettacolo mortificante coincide con la mortificazione spettacolarizzata. I colloqui d’amore sono oggi gonfi d’odio ed è bello scendere nelle sentine a fare turismo horror o a gentrificare.
L’acme di tutto ciò ha avuto la sua “plastica rappresentazione” a Roma. L’altro giorno mi trovavo appositamente nella periferia di Tor Bella Monaca, quando i maggiorenti del Partito Democratico sono sbarcati per la prima segreteria nazionale presieduta da Maurizio Martina. La cosa si teneva in una libreria di frontiera. Scendevano tetri e incongrui da auto blu, confermando i peggiori archetipi castali. Non sono riuscito a entrare nella poco ambita location, respinto da un bodyguard che ammetteva solo giornalisti con telecamera. Ho lanciato uno sguardo di straforo. Dentro ci si idratava da bicchierini in plastica arancione. Maurizio Martina parlava sotto una solinga calla. Ero lì per testimoniare cosa, precisamente? Volevo vedere come era fatto di persona il tetragono Matteo Orfini. Stavo compiendo il tour dell’orrore pure io: volevo guardare loro, mentre loro guardavano noi. I comunicati stampa sono poi stati diramati, mentre alla spicciolata i notabili si volatilizzavano e restava, meno volatile che mai, perennemente aggiornata, la periferia.
Del resto qualche giorno prima ero stato protagonista di un simile safari metropolitano. Ho condotto nella landa desolata del mio quartiere d’origine un mediamente noto architetto progressista. Me lo aveva chiesto senza inibizioni, divertito come solo in un locale di corso Como si può essere divertiti. L’ho preso e portato in motorino, tra auto in coda smisurata sulla circonvallazione. In qualunque abitacolo risuonava la voce predatoria di Giusi Ferreri, che cantava che è tutto amore e capoeira, “come in una favela”. Ci andassero, i fan automobilistici di Giusi Ferreri, in una favela. Purtroppo, alla Rocinha di Rio, ci vanno eccome.
Ho scaricato questo rich kid avvizzito al centro del complesso di case popolari. Scende dal motorino, esplode nell’aria un colpo secco, l’architetto si piega sulle sue gambe. Ho pensato: gli hanno sparato. Non è un’ipotesi peregrina in Italia, oggi. Nulla di tutto ciò: tra le nicchie sgretolate dei palazzi Aler prospera una popolazione di piccioni bisunti, magrissimi, efferati. Se ne era innalzato uno, su cui si era aggrovigliato il nastro magnetico di una musicassetta anni Ottanta. Il guscio della cassetta, trainata per il nastro, aveva schioccato sulla testa del mio turista dell’osceno, ora in stato confusionale.
Tra calcificazioni di cacche canine e ciuffi di erba veccia, i breakdancer 2.0 roteavano sul lastricato, parevano tutti Sfera Ebbasta. L’architetto non se lo filava nessuno. Lo avevo condotto alle Case Bianche, edilizia popolare e devastata in via Salomone, che il Papa ha insistito per visitare nel 2017, non producendovi nessun miracolo, ma attirando una pubblica attenzione, che nella via non si misurava dai tempi in cui scoprirono che il prospiciente autoparco era un deposito di armi e droga per i famigli di Totò Riina. Era sempre il 1993, tout se tien.
Ho trascinato il mio urban designer in una catabasi negli scantinati bui, tra aromi di crack, zaffate di polvere antiratto e frastornanti campionamenti trap. Abbiamo assistito a una session della band dei Curtois (“Perché avete scelto il nome di un portiere belga?” “Non lo sappiamo”). Intonavano una litania strascicata con massicce dosi di autotune, credendo che l’architetto a me allegato fosse il fratello di Cecchetto e cercando di lusingarlo con inquietanti pipette. Dopo due ore di periferia, la sua sete di realismo capitalista ed esotico si spegneva di passo in passo, sul selciato gibboso e sbrecciato. Quando l’ho riportato al suo loft, stava a zero gammaglobuline, fisiche e morali. Non si assiste senza conseguenze alla città dolente, all’eterno dolore: conviene che ogni viltà qui sia morta. O ci si nasce, tra sospiri, pianti e alti guai, oppure ci si innamora dello sperpero umano che qui mulina il suo immenso vortice – e si viene a viverlo integralmente. È la città declinata al gerundio e bisogna averne paura, perché da qui germoglia ogni rivoluzione.
Allora sono tornato in motorino: mi si vede di schiena, nella luce lattea milanese, privo di colonna sonora, vado verso la mia periferia assoluta…
Attualità
17 agosto, 2018Un’epidemia di benestanti in visita pelosa nei nostri tristi buchi fuori città. Per dire che si è toccato con mano il popolo, che si è vissuti qualche ora sociologica, estetica, civilmente edificante
Turisti in periferia
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