Ai vertici delle istituzioni c’è un ministro ordine-e-pulizia che la legittima. Parla Luciano Canfora, storico in prima linea
Si può: malmenare e schedare i cronisti venuti a raccontare il tuo raduno fascista, organizzare raid a caccia di immigrati, rubare gli abiti a un clochard e gettarli nella spazzatura in nome dell’ordine-e-pulizia della tua città, fissare le quote di accesso negli asili nido realizzando un apartheid di fatto per i bambini figli di immigrati, incontrarsi da ministro della repubblica italiana con i leader di movimenti apertamente neofascisti e neonazisti per fare cartello in vista delle prossime elezioni europee... E altro, troppo, ancora. Benvenuti in Italia, anno Domini 2019.
Un’Italia che puzza di fascismo, mette in guardia da tempo Luciano Canfora, filologo e storico in prima linea nel segnalare una deriva che pare inarrestabile. Uno smottamento che travolge il Paese, forte di una “normalità”, di un “si può” che se non ha rotto tutti gli argini legali certamente sta demolendo quelli culturali.
Eppure, professore, c’è chi sostiene - e non solo da destra - che le analogie che lei segnala tra l’Italia attuale e il fascismo sono una forzatura. «A dire il vero non ho seguito molto le reazioni a queste mie posizioni. Ma è vero, non sembra facile farsi capire...».
Far capire che non sta parlando del ritorno dei fez e dell’olio di ricino... «Certo, non è di questo che parlo. La storia non si ripete. Ma non vorrei straripare su questo tema che ho studiato a lungo da quarant’anni, da quando mi occupavo di Resistenza. Da poco è stato ripubblicato quel bellissimo libricino di Umberto Eco, “Il fascismo eterno”, dove l’insospettabile Eco, una persona raffinata, un intellettuale non schematico, metteva in luce i caratteri fondamentali di una mentalità fascista, che viene alimentata in determinati momenti di crisi. Ora, l’invito che io rivolgo è quello di considerare concetti di questo genere in modo dinamico e sfumato. Mettendo in guardia sul fatto che situazioni alimentate dall’alto, non solo con la propaganda ma con specifici atti di governo, aprono la strada all’emergere di bassi sentimenti, di una mentalità di tipo fascista».
Sta dicendo che al vertice di uno dei ministeri più importanti, da cui dipendono la sicurezza e la difesa dell’ordinamento democratico, c’è un politico, Matteo Salvini, che legittima e alimenta una mentalità fascista? «Sì, è evidente».
“L’Ur-fascismo”, scriveva Eco, “può tornare ancora sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme”. Non sembra un compito facile in presenza di una legittimazione dall’alto. «Dobbiamo fare i conti con questa legittimazione istituzionale. Ed è già accaduto nel nostro Paese. Mi viene in mente la legittimazione del Msi da parte di Tambroni. I neofascisti si sentirono talmente legittimati da organizzare il loro congresso in una città come Genova e di farlo presiedere a Carlo Emanuele Basile, un criminale repubblichino. Ma allora, nel luglio del ’60, la città esplose... quella legittimazione dall’alto venne rigettata».
Oggi no. «Oggi una reazione simile a quello che sta accadendo non c’è. Questo dipende anche dal fatto che la forza principale della sinistra italiana ha progressivamente dismesso concetti, pratiche, modi di vigilanza che facevano parte della sua tradizione... E questo segna un arretramento della coscienza pubblica. È rimasta solo l’Anpi a combattere questa deriva fascistoide, non sento analoga volontà in quel che resta della sinistra italiana».
Lei ha insistito molto sul retroterra culturale di tutto questo, ha parlato di “diseducazione di massa”. Si può invertire, o almeno arrestare? E come? «Sul piano culturale un danno enorme è venuto dall’equiparazione tra nazismo e comunismo. Questa equiparazione è stata sostenuta in modo insistente dai professori, dai giornalisti. Ed è stata micidiale, ha cancellato il fatto che i sovietici hanno pagato con 20 milioni di morti per la nostra salvezza dal nazismo. Molto di quello che vediamo è frutto di un martellamento di decenni su questo punto. Così, prima o poi, smantelleremo anche il 1789. Quanti professori in cattedra continuano a raccontare questa sciocchezza nelle aule... L’opera di rieducazione è dura, hanno cercato di modificare i libri di scuola. La battaglia deve ripartire dalla scuola ma la scuola è accerchiata da opinioni diffuse di segno contrario».
C’è un ruolo della disintermediazione in questa “involuzione culturale”? «Frequento poco la Rete ma i suoi “prodotti” mi sembrano spaventosi. La pervasività dei deliri del primo stralunato nostalgico certamente cambia lo scenario».
Forse basterebbe guardare alle “fratellanze” e alleanze internazionali della Lega di Salvini per farsi meno scrupoli a usare la parola fascismo. «Anche questo dovrebbe essere evidente. Non sono pochi i movimenti apertamente neofascisti e neonazisti in Europa. Qualche giorno fa nell’Ucraina tanto coccolata c’è stata una fiaccolata in ricordo del principale collaborazionista con i nazisti».
Torniamo in Italia, Paese democratico... «Sì, ma insisto: il fascismo non ha una sola faccia. Brecht disse che un fascismo americano sarebbe democratico. Le forme esteriori si possono conservare svuotandole completamente di sostanza. Un altro grande scrittore, Thomas Mann, parlando a Hollywood davanti a un gruppo di pacifisti, disse che con le leggi di McCarthy si rischiava il fascismo. Usare questa parola non è il capriccio di professori solitari. L’illusione che il fascismo sia finito con la guerra è un’illusione appunto, pensiamo solo a Franco...».
E Paese intollerante, sempre più apertamente xenofobo: “prima gli italiani”. «Uno slogan che riprende l’essenza del Manifesto per la difesa della razza è diventato “normale”, condiviso».
Forse non ci siamo trovati qui all’improvviso, professore. «No, è un processo. A cominciare dall’impoverimento, dall’allargarsi delle fasce del disagio. La povertà si è diffusa e l’Europa non ha affrontato questo problema. E con l’impoverimento cresce la sensibilità di questi ceti verso un “nemico”. È la stessa ragione per cui nella Germania del ’29 il nazismo fa una marcia trionfale. Sono situazioni in cui fare appello all’egoismo, al “prima noi”, è facile. Il parallelismo storico funziona, purtroppo».
Anche nell’assenza di argini politici solidi. «Le sinistre non hanno capito quasi nulla delle trasformazioni in atto. E aggiungo che un ruolo importantissimo va attribuito alle modalità della costruzione europea, avvenuta partendo dal punto sbagliato: prima la moneta poi tutto il resto. Una costruzione avvenuta a spese delle fasce più deboli. La bravura dei fascistoidi che ci governano a sollevare la questione dell’Europa nemica fa perno su un problema reale. I fascismi conquistano consensi facendo appello a problemi reali».
C’è un momento preciso in cui l’antifascismo ha smesso di essere un valore? «Quando si decise si sdoganare il Msi anche utilizzando le ricerche di Renzo De Felice. Uno studioso talvolta discutibile, ma serio, che solleva il velo su un problema trascurato dalla retorica dell’antifascismo: il consenso».
Vede un punto di non ritorno? O gli anticorpi funzionano? «Sono convinto che non si debba dare per persa la battaglia. Un elemento che spaventa molti è che la Lega salviniana sembra crescere a vista d’occhio. Ma lo fa a scapito del resto della destra. È la metà del Paese, sempre la stessa. A breve questa coalizione di governo esploderà e da quella crisi si avvierà un rimescolamento delle carte. Può esserci una rinascita. Gli elementi negativi sono enormi oggi in Italia. Ma le possibilità anche».
Un varco, un “si può” di segno opposto. Da cui ripartire.