Pubblichiamo la lettera scritto dai cinque ragazzi mandati a processo a Torino per aver combattuto al fianco dei curdi in Siria. Tre di loro dovranno ricomparire davanti al giudice il prossimo 15 ottobre. «Non basta indignarsi davanti agli articoli di giornale, in base all’attenzione volatile di social network e mezzi d’informazione. È necessario attivarsi per i curdi ora»

L’Espresso ha seguito fin dall’inizio, con partecipazione, la vicenda processuale dei cinque ragazzi che sono andati a combattere in Siria al fianco dell’Unità democratiche di protezione del popolo curdo. È grazie al loro impegno e alla loro instancabile attività di divulgazione - testimoniata da decine di incontri con gli studenti, scuole, università, centri sociali - se anche nel nostro paese è potuta maturare la consapevolezza di quanto sia prezioso e unico nel contesto mediorientale, il laboratorio socio politico messo in piedi nella confederazione democratica Rojava. Ed è proprio contro quel modello di convivenza civile fra popoli di diversa etnia e religione e in cui le donne svolgono un ruolo di primo piano che Erdogan sta scagliando con furia le sue milizie definendo “terroristi” quei curdi colpevoli soltanto di voler difendere quel modello e la popolazione civile dagli attacchi del Sultano. La domanda è: chi è il vero terrorista?

Mentre Erdogan bombarda quartieri e civili in Siria per costringere alla fuga i curdi, mentre l’Isis ne approfitta per alzare la testa con azioni, rivolte e attentati, e puntare a una rinascita; mentre dal mondo intero sale la voce del buonsenso che chiede rispetto per la pace relativa conquistata dalla Siria, dilaniata da otto anni di guerra che hanno causato mezzo milione di morti; mentre il mondo guarda con orrore i settantamila profughi provocati dalla guerra scatenata contro le Ypg-Ypj, che hanno perso 11.000 caduti sconfiggendo lo Stato islamico; mentre avviene tutto questo, in Italia si mandano alla sbarra gli italiani che hanno preso le armi contro l’Isis proprio al fianco dei curdi siriani.
 
Tre di noi, per essersi battuti in diverse forme e in diversi periodi in Siria contro l’Isis e il fondamentalismo, dovranno comparire nuovamente davanti a una sezione speciale del Tribunale di Torino martedì 15 ottobre.
 

Giovani in guerra
Siamo andati a combattere l'Isis. Ora lo Stato italiano ci sta processando
14/3/2019

Quali le accuse? Nessuna. La procura di Torino ha iniziato contro di noi in gennaio una procedura resa possibile da una norma introdotta da Mussolini nel 1931 e incredibilmente mai espunta dall’ordinamento italiano, ma attualizzata nel 1956 e nel 2011: le «misure di prevenzione». Per quanto possa apparire incredibile, questa norma consente ancora oggi di limitare la libertà dei cittadini in via preventiva, senza accuse e senza processo.
 
La procura ha proposto in gennaio di espellerci da Torino e confinarci in altri comuni, imponendo il rientro notturno quotidiano presso le abitazioni di residenza, il sequestro di passaporto e patente e persino il divieto a parlare in pubblico o a riunirsi con più di due persone. Com’è possibile? E com’è possibile che una simile norma venga usata non contro i fanatici dell’Isis, ma contro chi ha fatto quel che poteva per combatterli?
 
Secondo la pm Emanuela Pedrotta, sulla base di un’iniziativa cui ha contribuito il capo della Digos torinese Carlo Ambra, aver combattuto per i curdi contro l’Isis ci rende socialmente pericolosi perché i curdi fanno propria una critica del modello capitalistico di società. In una sorta di revival delle audizioni maccartiste americane della guerra fredda, la pm non ha esitato ad attaccare le nostre idee in aula, leggendo stralci dei nostri libri e dei nostri artici sulla Siria, senza rispetto alcuno, peraltro, per le esperienze non facili che abbiamo vissuto, né per i fini per cui abbiamo lottato – oltre che per il basilare principio della libertà di espressione.
Le testimonianze
«Combattere al fianco dei curdi è stata la cosa giusta e non vogliamo mollare»
30/5/2019
 
In giugno la sezione speciale del Tribunale che si occupa di queste “misure di prevenzione” ha contestato le tesi della procura: aver combattuto con le Ypg-Ypj, l’esercito curdo, e far proprie idee critiche verso il capitalismo non è «di per sé» sintomo di «pericolosità sociale». Bene. Il carattere obiettivamente surreale della vicenda è però oggi accentuato dal fatto che, nonostante questo, Maria Edgarda, Paolo e Jacopo restano sotto la spada di Damocle della possibile applicazione questa misura. I giudici hanno infatti asserito che è necessario indagare su altri fatti, avvenuti dopo il loro rientro. Cosa avranno combinato?
 
Occorrerà appurare, dicono i giudici, se durante una festa di capodanno in solidarietà ai detenuti e in occasione un sit-in musicale davanti a un bar che non pagava un dipendente (episodi del 2018 dove non abbiamo commesso alcuna violenza contro chicchessia, né fatto alcunché di illegale), Maria Edgarda, Jacopo e Paolo abbiano utilizzato le competenze militari ottenute in Siria per combattere l’Isis. Avete capito bene: non soltanto eventi del tutto garantiti dalla libertà di manifestare (e animati da scopi, crediamo, più che giusti) sono considerati un problema, ma li si vuole collegare a Torino con la guerra in Siria e con un’acquisita “preparazione militare”. Non è un po’ troppo anche per i livelli di assurdità cui i tempi recenti ci hanno abituato?
 
Tutto questo mentre la Turchia attacca i curdi anche con armi italiane e soldi europei e rischia di far scappare diecimila potenziali attentatori dell’Isis. Tutto questo mentre i neonazisti o suprematisti bianchi compiono stragi di ebrei e musulmani e gli estremisti italiani di destra, si viene a sapere, detengono missili nei loro garage, qui in Italia.
 
Sappiamo che è difficile, per il lettore, credere che tutto ciò sia vero. Ma è tutto verificabile, ed invitiamo tutti a venire ad assistere all’udienza di martedì 15 a Torino, che sarà pubblica.
 
Una vicenda nata nella procura di Torino per criminalizzare il movimento curdo si è trasformata in un attacco alla possibilità di criticare le storture del nostro paese, con l’aggravante che, anziché accertare violazioni della legge con accuse circoscritte e istruttorie e gradi di giudizio, la procura insiste a richiedere una misura preventiva che è triste e scandalosa eredità del ventennio.
 
Se tutto questo nell’Italia di oggi è possibile, se questo avviene nella magistratura e nelle forze di polizia, è perché l’Italia è culturalmente malata. Per quanto si tratti di un caso circoscritto e in alcun modo paragonabile a quello che sta accadendo ai nostri compagni ora in Siria, illumina sulla possibilità stessa di ciò che sta accadendo al popolo curdo: il cinismo di un’America che usa le persone e poi le fa massacrare, o quello di un’Europa che foraggia di armi e denaro i massacratori per poi versare lacrime da coccodrillo, lo ritroviamo in nuce nel disprezzo dei funzionari dello stato per quelle persone, attraverso quello che mostra per noi.
 
Il muro che la Turchia ha costruito al confine con la Siria come cordone sanitario verso le politiche anti-fondamentaliste dei curdi e dei loro alleati arabi e cristiani nella Siria del nord è stato finanziato con sei miliardi di euro regalati ad Erdogan dall’Unione Europea: soldi delle nostre tasse finite a disposizione di un regime che incarcera migliaia di insegnanti e giornalisti, rade al suo le sue stesse città per eliminare gli oppositori (Nusaybin, Cizre, Shirnak) e ora minaccia di mandare tre milioni e mezzo di profughi in Europa per vendicarsi delle critiche ricevute, come se non si trattasse di esseri umani, ma di pacchi postali.
 
Il cinismo, la brutalità e a follia del mondo di oggi, giustamente attaccati dall’ideologia rivoluzionaria e socialista del movimento curdo, possono portarci alla rovina. Non basta indignarsi davanti agli articoli di giornale, in base all’attenzione volatile di social network e mezzi d’informazione. È necessario attivarsi per i curdi ora, nelle strade e nelle piazze, perché nel nostro mondo tutto è interconnesso, e se la rivoluzione delle donne in Rojava viene schiacciata sarà una vittoria enorme per il fondamentalismo islamico e anche, di conseguenza, per gli xenofobi che non aspettano altro per alzare sempre più la voce in Europa.
 
Permettere alla procura di Torino di espellere dalla loro città Maria Edgarda, Jacopo e Paolo, limitandone la libertà in modo inaccettabile e arbitrario, sarebbe un’onta per il nostro paese e un rischio per chiunque intenda usare lo spazio pubblico per dissentire rispetto alle ingiustizie dell’Italia attuale – ivi compresa la sua irresponsabile e ipocrita politica estera.