Bocciata in appello la sentenza di primo grado del processo "Black monkey" sugli affari dell'ndrangheta al nord. Per i magistrati Nicola "Rocco" Femia, che ha minacciato di morte e costretto a una vita sotto scorta il nostro cronista Giovanni Tizian, sarebbe "solo" il capo di una normale associazione a delinquere che usa però il metodo mafioso

Mafia sì. Anzi no. In Emilia Romagna i giudici d'appello bocciano la sentenza di primo grado contro Nicola Femia, ritenuto dalla procura al vertice di una cosca di 'ndrangheta residente tra Ravenna e Bologna. Che ha usato la violenza e le minacce per imporsi e fermare i nemici. Come i giornalisti. «Gli spariamo in bocca».

Una frase pronunciata durante una telefonata nel lontano 2011 che è costata al giornalista dell'Espresso otto anni di vita sotto scorta. Protetto su ordine della procura antimafia di Bologna che d'urgenza, dopo aver sentito quelle parole, aveva chiesto alla prefettura di Modena, la città in cui lavorava all'epoca Tizian, di disporre la protezione e l'auto blindata.

La procura antimafia stava indagando su una famiglia legata alla 'ndrangheta calabrese residente tra l'Emilia e la Romagna. La stessa famiglia di cui si occupava con le sue inchieste sulla Gazzetta di Modena il giornalista: dal 2010 aveva iniziato a scrivere degli affari di Femia in Emilia e in Lombardia, scoprendo quanto influente fosse diventato Nicola Femia, detto “Rocco”, nel settore del gioco d'azzardo legale.

L'indagine giudiziaria denominata “Black Monkey”- dal nome di una slot machine distribuita dal gruppo Femia, condotta dal pm Francesco Caleca, dal procuratore Roberto Alfonso e dal Gico della guardia di Finanza- ipotizzava l'esistenza in Emilia Romagna di un'associazione mafiosa guidata da “Rocco” appunto, fedelissimo in passato di uno dei padrini più potenti della Calabria: don Vincenzo Mazzaferro, ucciso nel '93. Riciclaggio, estorsioni, minacce. Questi i reati che verranno contestati a Nicola “Rocco” Femia, che secondo l'antimafia bolognese era a capo di un vero e proprio clan di 'ndrangheta, fortemente connesso a pezzi grossi della mafia in Calabria.

L'impianto ha retto in primo grado: il 22 febbraio 2017 il tribunale di Bologna condanna tutti gli imputati a pena pesantissime. Il capo, cioè Femia, a 26 anni. È mafia, insomma. Alle parti civili viene così riconosciuto il risarcimento del danno. Tra queste ci sono il giornalista Tizian e l'Ordine dei giornalisti. Insieme a “Rocco” vengono condannati i figli e i gregari.

Dopo quella sentenza, Femia decide di collaborare con la giustizia. Diventa cioè un pentito, che vive ancora adesso sotto protezione. In questi due anni ha rivelato a cinque procure i segreti di altri 'ndranghetisti. Lui stesso dice nei verbali di essere stato «un uomo riservato di Mazzaferro». Un uomo, dunque, da tenere sotto traccia, al servizio di un mammasantissima della mafia calabrese del calibro di Mazzaferro. Nicola Femia ripercorre nei verbali la sua carriera criminale: dall'omicidio quando ancora non era maggiorenne al narcotraffico per conto del padrino di Gioiosa fino al salto nell'economia legale nella ricca Emilia, dove diventa il re delle slot e poi del poker online in rapporto pure con i Monopoli di Stato. Tuttavia nel processo d'Appello di Bologna non è stato ritenuto attendibile, il sospetto è che non volesse raccontare gli affari che riguardavano la stretta cerchia familiare.

Arriviamo così al 29 ottobre 2019. Due anni dopo la sentenza di primo grado e l'inizio della collaborazione di Femia. La Corte d'Appello di Bologna si esprime diversamente: non è mafia. E Femia è soltanto il capo di un'associazione semplice, che ha commesso reati aggravati dall'articolo 7, ossia con il metodo mafioso. In altre parole, quella di Femia è una banda organizzata ma non mafiosa, che tuttavia ha usato il metodo mafioso nella commissione del lungo elenco di reati contestati dall'accusa.

Una formula tranquillizzante per l'Emilia Romagna, che potrà essere usata dai più scettici per affermare che avevano ragione loro, che qui la mafia non c'è, non è radicata. Che in fondo è solo questione di delinquenza comune. Capriole giuridiche - poco comprensibili per i non addetti ai lavori - di una sentenza che riduce le pene e annulla i risarcimenti. E fa carta straccia di un principio stabilito dal tribunale in primo grado: «La minaccia a un giornalista è un fatto eversivo», un «attentato alla Costituzione», scriveva il giudice due anni fa nelle motivazioni della sentenza. Le parti civili così come la procura generale rappresentata da Nicola Proto faranno ricorso dopo aver letto le motivazione, che saranno note tra 90 giorni.