Il movimento è la risposta immunitaria della società civile contro malattie che non è disposta a sopportare: il sovranismo, il razzismo, l’intolleranza

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Dopo la manifestazione di Bologna del 14 novembre, e quelle seguenti, si parla molto del Movimento delle Sardine. Le interpretazioni si susseguono, i posizionamenti si moltiplicano, come i tentativi di mettere le Sardine nella propria scatoletta preesistente (“sono di…”), per farsele amiche a sinistra, o sminuirne e magari condannarne l’importanza a destra. Vizi da politichetta di tutti i colori, che concepisce solo i suoi schemi. È in realtà una bella manifestazione di resistenza diffusa, contro il degrado politico ormai insopportabile, che merita rispetto intellettuale, non mera appropriazione o polemica d’interesse. Per esercitare questo rispetto, bisogna cercare di capire meglio come mai tante persone, anche così diverse per età, ceto, cultura, e provenienza geografica, sono disposte a partecipare a civili manifestazioni di protesta in tante piazze italiane e non solo, anche sotto la pioggia, anche se deluse dalla politica, a volte per la prima volta in vita loro.

Le Sardine non sono un branco a caccia di fama multimediale, di uno spazio partitico, di una qualche rappresentatività politica, o di una ipotetica candidatura. Sono un banco a difesa della Costituzione e di una politica in grado di raggiungere compromessi senza compromettersi, fatta di confronti onesti, informati, competenti, educati, e ragionevoli sulle vere questioni che preoccupano le persone: dall’educazione alla sanità, dal lavoro alla pensione, dalla sicurezza sociale alla protezione dell’ambiente. Chiedono alla classe politica di fare il suo lavoro decentemente, per migliorare il presente e progettare il futuro. Oggi sembra chiedere la luna. Che si sia arrivati a questo punto indica quanto sia malata la politica. Ma è per questo che è sciocco o furbino obiettare che le Sardine non hanno un programma propositivo. È come dire che gli anticorpi non hanno una funzione salutare.
L'intervento
Lettera aperta alle Sardine
9/12/2019

Meglio interpretare le Sardine come la risposta immunitaria della società civile contro malattie che non è disposta a sopportare: il sovranismo, il populismo, il razzismo e la xenofobia, l’intolleranza, il negazionismo (dal riscaldamento globale alle atrocità nazi-fasciste), i rigurgiti fascisti, la litigiosità, l’incompetenza e la corruzione di troppi, la comunicazione violenta, maleducata e faziosa di molti. Chi obietta che si tratta solo di un “movimento di protesta” confonde il non volere la politica, che è uno sterile rigetto apolitico fine a se stesso, con il volere che la politica sia una cosa seria e proficua, che è una richiesta di riforma e un gesto di fiducia verso quanto è possibile fare tutti insieme, come società, contro la rassegnazione collettiva. Si può accettare che “va tutto male” e rimboccarsi le maniche, non che “non c’è niente da fare” e farsi gli affari propri. Le Sardine non vogliono fare politica, vogliono che si faccia Politica. Chi risponde che questo è pur sempre fare politica non ha torto, ma sbaglia nel pensare che allora deve essere un certo tipo di politica. È una richiesta di buona Politica, non il tentativo di soddisfare tale richiesta politicamente.

Quindi le Sardine sono proPolitiche non aPolitiche. Per questo non si incontrano in luoghi storici, non sfilano per strada, ma si stringono in piazza, nell’agorà, il luogo democratico per eccellenza. E per organizzarsi usano la rete, mostrando che Internet non serve solo a manipolare l’opinione pubblica demagogicamente dall’alto, ma resta uno splendido strumento di condivisione di idee e coordinamento sociale dal basso. Questa modalità di protesta pacifica e quasi pacifista, senza bandiere e senza proclami, attraverso non il dire ma il mostrare che siamo tutti sulla stessa piazza-barca, che possiamo prosperare solo tutti insieme, come tutti insieme rischiamo di affondare, ha richiesto un’innovazione comunicativa.

L’espressione flash mob nasce nel 2003 per indicare un assembramento intenzionale ma inaspettato di persone in uno spazio pubblico, reso possibile dal coordinamento occasionale dell’azione di gruppo, di solito attraverso Internet. Qualcuno si è stupito e ha esaltato l’unione tra Facebook e la piazza come una straordinaria novità. La verità è che la separazione tra digitale e analogico, tra online e offline è degli anni Novanta. Facebook è nata nel 2004. Gli organizzatori del flash mob di Bologna sono trentenni che vivono da tempo onlife.

Il fine di un flash mob è quello di sorprendere e attrarre l’attenzione pubblica con la sua stessa esistenza e significatività. Non rimanda ad altro, come un comizio, ma è il suo stesso contenuto, come una canzone. Insistere nel chiedere quale sia il “vero” messaggio vuol dire non aver mai sentito parlare di McLuhan: l’evento è il messaggio (the medium is the message), fine. Questo è importante, perché oggi controbattere certi temi è, per usare un detto inglese, come lottare con un maiale: si finisce solo per sporcarsi e inoltre il maiale si diverte un mondo. Ingaggiare un dibattito serio sull’ “emergenza immigrazione”, per esempio, rischia di legittimarla come una posizione degna di essere discussa e di concentrare l’attenzione di tutti sui temi sbagliati. Si aggiunge rumore, distraendo ulteriormente l’opinione pubblica dalle cose serie, e facendo così un favore a chi vuole monopolizzare l’attenzione su simili temi. Pessima mossa, ma resta il problema: se non ci si impegna, come ci si può difendere? Le Sardine hanno identificato una modalità, elegante: la co-presenza in piazza come segnale dirompente per criticare senza legittimare, per dare a tutte le persone che non ne possono più di politichetta e anti-politichetta la possibilità di un gesto di dissenso educato contro le malattie di cui soffre tutta la politicaccia. Con il valore aggiunto di far parlare i giornalisti di qualcosa di diverso dai soliti temi cari alla politicaccia stessa. I cattivi politici non vedono l’ora che si smetta di parlare di Sardine e si riprenda a parlare di loro. Come diceva Oscar Wilde, l’unica cosa peggiore del parlar male di me e che non si parli di me.

Acronimizzare “Sardine” non ha senso e va contro l’approccio immunologico. Il termine è nato accidentalmente, dall’espressione “stretti come sardine”. Meglio lasciarlo come un modo per identificare un’ampia reazione civile contro il populismo sovranista. Altrimenti si inizierà a litigare se la S possa stare per “Sostenibilità” o “Solidarietà”, o la A per “Accoglienza” o “Amicizia”. Il termine “Sardine” è ben scelto. Nel 2014, pubblicai un testo in cui introducevo il concetto di protezione della privacy di gruppo argomentando che ciascun individuo pensa di essere speciale, come Moby Dick, ma in realtà quasi tutti siamo sardine. Ogni sardina teme che il populista stia cercando di pescare proprio lei. Ma il populista non è interessato alla sardina, cerca di pescare tutto il banco. È quindi il banco che deve essere protetto, per salvare ogni sardina. Un’etica che si rivolge a ciascuno di noi come se fossimo tutti Moby Dick è lusinghiera, ma deve essere aggiornata urgentemente. A volte l’unico modo per proteggere l’individuo è proteggere il gruppo al quale appartiene.

In conclusione, resta la domanda più difficile: che cosa si può fare ora che gli anticorpi sembrano contrastare i malanni peggiori della politica? Alla lavagna, le opzioni sono tre. Si può riformare un partito esistente, per farlo diventare Politico. Sembra impossibile, qualunque sia la scelta di partenza. Si può trasformare il Movimento delle Sardine in un partito. Sembra contraddittorio, qualunque sia la speranza di arrivo. O si può creare un partito nuovo, non basato su qualche velleità individualistica, ma che si faccia portavoce e coordinatore di tutte le esigenze di buona politica che ormai da anni sono espresse da tanti movimenti diversi. Sembra utopistico, ma si sa, le Sardine tendono a essere ottimiste.